-- Male e peccato originale: un bilancio della questione

Marco Galloni
Novembre 2021

 

Teilhard de Chardin è stato accusato di numerose colpe. Di aver praticamente cancellato il peccato originale dalla dottrina della Chiesa, innanzitutto. Poi di aver proposto una soluzione eccessivamente ottimistica al problema del male e della salvezza. Ma nessuna di queste accuse ha un reale fondamento.

Superare il geocentrismo, il fissismo e il monogenismo

Dall’immensa produzione teorica del gesuita – osserva Gianfilippo Giustozzi dell’Istituto Teologico Marchigiano – emerge la convinzione che i progressi delle scienze fisiche e naturali abbiano effetti decostruttivi sulle tradizionali rappresentazioni religiose, effetti che si estendono anche alla dottrina del peccato originale[1]. Per Teilhard non è più possibile leggere queste rappresentazioni secondo i paradigmi del geocentrismo, del fissismo e del monogenismo. In Comment je crois, il gesuita scrive che interpretare il racconto della caduta in senso letterale, come la colpa storica commessa da un singolo uomo, poteva apparire plausibile a Paolo e a uomini che credevano ancora «agli otto giorni della creazione, a un passato di 4000 anni […], agli astri come satelliti della terra, agli animali come servitori degli uomini»[2], ma certo non ai nostri contemporanei.
Alcuni accenni alla dottrina del peccato originale si trovano già in due scritti che Teilhard redige nel 1916: si tratta di una breve nota aggiunta al saggio La Vie cosmique e di un testo intitolato Le Christ dans la Matière. Trois histoires comme Benson. Per trovare contributi più specifici bisogna arrivare a luglio 1920 e all’aprile del 1922, quando Teilhard scrive (rispettivamente) Chute, Redemption et Géocentrie e Note sur quelques Représentations historiques possibles du Peché originel. Questi due saggi, e in particolare il secondo, sono comunemente ritenuti la causa scatenante degli attriti tra il gesuita e l’ufficialità ecclesiastica[3].

Allargare le nostre vedute sul peccato originale

Secondo Teilhard occorre «far esplodere» l’individualità storica di Adamo, trasferire la dottrina del peccato originale dall’ambito etico-antropologico all’intero cosmo, «universalizzare il primo Adamo»[4]. In questo modo «Adamo e gli effetti della sua colpa divengono il simbolo di un cosmo strutturalmente segnato, nella sua stessa costituzione ontologica, dalla precarietà, dal dolore, dal male»[5]. Per il gesuita francese il peccato originale non è l’infrazione di un codice etico ma «simboleggia l’inevitabile possibilità del Male». Prima ancora che una colpa morale, il peccato è una “tara ontologica”, una carenza d’essere che affligge la creazione per il fatto stesso di esistere. Nel secondo dei due saggi succitati lo dice in modo esplicito: «Occorre che allarghiamo a tal punto le nostre vedute sul peccato originale da non poterlo più collocare, attorno a noi, né qui, né là, e che sappiamo soltanto che esso è dappertutto, mescolato con l’essere del Mondo tanto quanto Dio che ci crea e il Verbo Incarnato che ci riscatta»[6]. Dunque Teilhard non ha affatto cancellato il peccato originale: al contrario, l’ha esteso su scala universale, cosmica. Negli Écrits du Temps de la guerre (1916) scrive: «Tutto ciò che è in divenire soffre o pecca. La verità sulla nostra situazione in questo Mondo è che vi siamo in croce»[7]. E nel saggio Forma Christi il gesuita di Sarcenat parla di una colpa originale che ci impedirebbe di sognare seriamente «un’Umanità naturalmente casta e contemplativa, in cui gli individui nascerebbero quasi immediatamente maturi per “depersonalizzarsi” in Gesù Cristo»[8].

Il problema del male

Teilhard, dicevamo, è stato accusato anche di eccessivo ottimismo, di aver proposto una riedizione della apocatastasi di Origene, dottrina dichiarata eretica dal Sinodo costantinopolitano nel 543 e poi dal Concilio di Costantinopoli II nel 553. Ma anche questa accusa è infondata. Per anni Teilhard fu tormentato da angosciose domande sui destini dell’uomo. Il “gesuita proibito” non ha mai dato per scontata la buona riuscita di quella gigantesca impresa che è la creazione. Questo ci porta alla questione del male, che Paul Ricoeur definisce un problema immenso, «una sfida senza pari» sia per la filosofia sia per la teologia[9]. Per Teilhard il Male (con la M maiuscola) è costituito in primo luogo da ciò che in Mon Univers (1924) egli chiama «le servitù del Mondo – anzitutto quelle che c’intralciano, ci diminuiscono, ci uccidono – e che non sono né divine né in alcun modo volute da Dio. Rappresentano la parte d’incompiutezza e di disordine che guasta una creazione non ancora perfettamente unificata. E, in quanto tali, non piacciono a Dio; e Dio, in un primo tempo, lotta con noi (e in noi) contro di esse. Un giorno, Egli ne trionferà. Ma poiché la durata delle nostre esistenze individuali è senza proporzione con la lenta evoluzione del Cristo totale, è inevitabile che non possiamo vedere la vittoria finale, nel corso dei nostri giorni terrestri (…)»[10].

Comment je vois, la cosmogenesi secondo Teilhard

L’idea di un Dio che lotta contro le servitù del mondo ci porta ad affrontare un altro importante tema: quello della creazione e della teodicea. In Comment je vois (1948) Teilhard propone una cosmogenesi che ricorda quella di Spinoza. Il gesuita parte da una critica radicale alla metafisica classica. Teilhard ha una concezione dinamica dell’Essere: l’Essere è determinabile grazie a un movimento caratteristico «di unione». Non si tratta dell’Essere in sé ma dell’Essere per sé, esistente solo in relazione all’unione con altri esseri («metafisica dell’unione»). Dio esiste unendosi e unendosi si completa: Egli «esiste opponendosi trinitariamente a se stesso». Questo movimento trinitario appartiene alla stessa natura divina e dà origine a un’altra specie di opposizione che sta agli antipodi dell’Essere Primo: il molteplice, che di per sé non è nulla ma che con la sua potenzialità d’essere è una possibilità cui Dio, per così dire, non può resistere. Ne consegue che l’universo esiste e non può non esistere: Teilhard fa saltare il concetto tomista della “contingentia mundi”.
Tale visione ha salde fondamenta metafisiche e bibliche. La “creatio ex nihilo” non va intesa nel senso di un universo che la mano di Dio tira fuori dal nulla come per magia. Questo è l’errore commesso anche da pensatori come Heidegger e Luigi Pareyson, che accordano al nulla una preesistenza rispetto all’universo. In realtà il nulla, da non confondersi con il non-essere, non precede né cronologicamente né ontologicamente l’esistenza dell’universo ma ne fa parte, perché anche il nulla “è”, è qualcosa. La “creatio ex nihilo” va piuttosto compresa come relazione tra l’Essere, che è Dio, e il nulla, che fa parte di quel molteplice alla cui potenzialità d’essere Dio non sa resistere.

La protesta del nulla

Quanto alle fondamenta bibliche, Israele arriva a concepire la “creatio ex nihilo” per via storico-soteriologica e non scientifico-astronomica, cioè riflettendo a posteriori sulla storia di salvezza vissuta dal popolo eletto. Da uno sparuto gruppo di nomadi, schiavi e ingannatori, Israele diventa il primogenito e l’eletto di Dio. Questa trasformazione è lunga, dolorosa, conflittuale. Se il movimento di opposizione trinitaria è di per sé armonioso, perfetto, quello tra Dio e il molteplice è un combattimento continuo. Per quale ragione? Ma perché il nulla e il molteplice fanno il loro gioco, si oppongono all’Essere. Il nulla non vuol essere, desidera solo rimanere se stesso, non intende partecipare al gioco di un Dio che, per un intollerabile arbitrio, chiama le cose all’esistenza. In letteratura troviamo diversi esempi di questo rifiuto dell’essere. In un terribile aforisma, Emile Cioran scrive: «Il bambino dei vicini è nato da una settimana e non fa che piangere: la protesta del nulla cui è stata imposta l’esistenza». Ne L’ultimo viaggio, tratto dai Poemi conviviali di Giovanni Pascoli, la ninfa immortale Calipso vede approdare all’isola Ogigia il corpo di Ulisse, lo abbraccia e piange così l’eroe un tempo amato: «Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più!»[11]. Questa protesta si trova anche nella Bibbia: «Tornai poi a considerare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole. Ecco le lacrime degli oppressi e non c’è chi li consoli (…). Allora ho proclamato felici i morti, ormai trapassati, più dei viventi che sono ancora in vita; ma più felice degli uni e degli altri chi ancora non esiste, e non ha visto le azioni malvagie che si fanno sotto il sole» (Qo 4,1-3). Al culmine delle sue sofferenze, Giobbe esclama: «Perisca il giorno in cui nacqui, e la notte in cui si disse: “È stato concepito un uomo!”» (Gb 3,3). Lo stesso fa il mite Geremia: «Maledetto il giorno in cui nacqui…» (Ger 20,14).

La crisi delle grandi teodicee

La cosmogenesi proposta da Teilhard può dare un contributo forse decisivo alla riflessione sulla “giustificazione di Dio” dopo che le grandi teodicee del passato – quella di Agostino, di Leibniz, di Kant, di Hegel… – si sono infrante sugli orrori del secolo breve[12]. Per questo alcuni grandi filosofi e teologi hanno cercato di affrontare il problema del male pensandolo altrimenti. Luigi Pareyson e Paul Tillich giungono a collocare il male in Dio: o il male, sostiene Pareyson, è vinto in origine dalla positività divina ma rimane comunque presente in Dio come possibilità che l’uomo continuamente ridesta[13]; oppure, come scrive Tillich, «se non v’è, in aggiunta a Lui, un principio negativo che possa spiegare il male e il peccato, come si può evitare di postulare in Dio stesso una negatività dialettica?»[14]. Un altro importante tentativo di superare il carattere aporetico della riflessione sul male è la “teologia spezzata” di Karl Barth, cioè una teologia che rinunci alla totalizzazione sistematica e alla logica della non-contraddizione.
Teilhard segue un’altra via. Innanzitutto si guarda bene dal porre il male in Dio, come abbiamo visto nel citato passo di Mon Univers
. Poi, con l’idea di un universo non contingente, assolve Dio con formula piena: Dio è del tutto innocente. Non lo si può neanche “accusare” di aver voluto creare l’universo. L’universo – con il suo carico di dolore, imperfezione e morte – esiste inevitabilmente e Dio sta cercando di salvarlo, di compenetrarlo con la pienezza del suo Essere. Creazione e redenzione vengono così a coincidere, sono di fatto la medesima azione divina: ecco la teodicea perfetta di Pierre Teilhard de Chardin!

 

 

[1] Cfr. G. GIUSTOZZI, Pierre Teilhard de Chardin: Geobiologia, geotecnica, neo-cristianesimo, Edizioni Studium, Roma, 2016, cap. III.3.
[2] P. TEILHARD DE CHARDIN, Chute, Redemption et Géocentrie, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 49-57.
[3] G. GIUSTOZZI, op. cit., cap. III.3.
[4] P. TEILHARD DE CHARDIN, Chute, Redemption et Géocentrie, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 49-57.
[5] G. GIUSTOZZI, op. cit., cap. III.3.
[6] P. TEILHARD DE CHARDIN, Note sur quelques Représentations historique possibles du Peché originel, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 61-70.
[7] P. TEILHARD DE CHARDIN, Écrits du Temps de la guerre, La Vie cosmique, Nieuport, 24 marzo 1916, pp. 55-57.
[8] P. TEILHARD DE CHARDIN, Forma Christi, in L’uomo, l’universo e Cristo, ed. Jaca Book, Milano, 2012, p. 63.
[9] P. RICOEUR, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, trad. it., Editrice Morcelliana, 2007, Brescia, p. 7.
[10] P. TEILHARD DE CHARDIN, Science et Christ. Mon Univers in Oeuvres de P. Teilhard de Chardin, t. IX, Éditions du Seuil, Parigi, pp. 100 – 102.
[11] G. PASCOLI, Poemi conviviali. L’ultimo viaggio di Ulisse in Opere, a cura di G. Contini, Mondadori, Milano, 1974.
[12] Cfr. P. DE BENEDETTI, In margine a Ricoeur. Sul male dopo Auschwitz, postfazione a Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia di P. Ricoeur, trad. it., Editrice Morcelliana, 2007, Brescia, p. 60.
[13] L. PAREYSON, La filosofia e il problema del male in Annuario Filosofico 2, U. Mursia editore, 1987, Milano, pp. 30-31.
[14] P. TILLICH, Il demoniaco, tr. It. a cura di Luca Crescenzi, Edizioni ETS, 2018, Pisa.