Teilhard de Chardin e Bonhoeffer*
Due voci: un’armoniosa melodia
Vincenzo Iannace è stato Docente di Biologia e Biochimica presso l’Università La Sapienza di Roma, docente di scienze e poi Dirigente Scolastico presso istituti superiori di Roma. Ha pubblicato articoli su riviste come CEM-Mondialità, Adista, Teilhard aujourd’hui.
Anna Meo è medico, laureata in Teologia presso l’Università Lateranense
In una tiepida giornata di primavera, il 10 aprile 1955, dopo aver partecipato alla solenne celebrazione nella cattedrale di St. Patrick, Teilhard de Chardin si reca ad ascoltare un concerto e poi a casa di amici; improvvisamente si accascia, colpito da un infarto, e muore.
Pochi mesi di morire, in una lettera ad una conoscente, tra le altre cose aveva scritto: “Se non ho preso abbagli, chiedo al Signore di morire il giorno di Pasqua”. Ebbene, quel 10 aprile era la domenica di Pasqua.
Dieci anni prima, all’alba del 9 aprile 1945, otto giorni dopo la domenica di Pasqua, veniva giustiziato nel lager di Flossenburg il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, che così scontava con la vita il suo appoggio e la sua partecipazione alla Resistenza antinazista.
Due uomini, due teologi, diversi per età, per “vissuti”, per differenti posizioni teologiche, accomunati dall’aver “celebrato in pienezza” la Pasqua del Signore.
Siamo però davvero certi che questo evento, a dir poco casuale, sia l’unica “affinità” che li leghi? Possiamo affermare con assoluta certezza, basandoci su fonti storico-biografiche, che Teilhard e Bonhoeffer non si conoscessero, se non personalmente, almeno attraverso le reciproche vicende storiche? Un dato di sicuro non trascurabile è che ambedue, seppure in epoche diverse e con differenti modalità, abbiano sofferto e pagato sulla loro pelle lo scotto di teorie e posizioni teologiche a dir poco “scomode” alla Teologia ufficiale del loro tempo[1].
In ogni caso lo scopo di questa nostra riflessione è quello di intravedere e di mostrare - seppure nelle oggettive diversità derivanti dalle diverse esperienze di vita, di educazione religiosa, di scelte teologiche – alcune “assonanze” nel pensiero di questi due autori, riguardo al alcuni “concetti-chiave” del pensiero teologico del secolo scorso.
Uno dei primi elementi comuni ai nostri due autori è quello che riguarda il rapporto tra materia e spirito, corpo ed anima.
Ne Il Cuore della Materia Teilhard racconta di provare disagio nell’aderire all’idea, inculcatagli dall’educazione religiosa ricevuta, che materia e spirito, corpo ed anima fossero “eterogenei” tra loro e che anzi la materia fosse la “umile serva” (per non dire “avversaria”) dello spirito[2].
La questione sarà completamente ribaltata da Teilhard nella sua profonda ed esaustiva riflessione sull’evoluzione, che lo condurrà ad asserire che lo spirito e la coscienza nascono dalla materia e che quanto più questa è “ordinata”, tanto più darà vita a forme superiori di cui la forma più alta è l’anima spirituale[3]. È proprio in un’ottica “religiosa” nuova che Teilhard afferma che “Noi abbiamo il diritto e il dovere, in nome della nostra fede, di appassionarci alle cose della Terra. […] Il Cristianesimo […] è, in senso vero, un’anima possente che conferisce un significato, un fascino e una leggerezza nuova a ciò che facciamo”[4].
Anche Bonhoeffer sente forte il legame con la terra, con la materia, cui ritiene strettamente legata l’anima spirituale, tanto da attingere proprio dagli elementi materiali la consapevolezza di essere non solo “corpo”, ma autentico spirito, in una vita libera da quello che altrimenti sarebbe “ammuffimento e inautenticità di un’esistenza solo spirituale”[5].
Un altro aspetto interessante da evidenziare è la posizione dei due autori sulla questione del peccato originale.
È ormai superata la convinzione che Teilhard “contestasse” il dogma del peccato originale, seppure le sue idee al riguardo contribuirono di gran lunga ai provvedimenti presi nei suoi confronti. A tale proposito è illuminante l’affermazione di Martelet quando scrive: “Pur rifiutando l’interpretazione letterale del racconto della caduta, Teilhard ne coglie perfettamente la portata universale, attraverso la coppia-parabola di Adamo ed Eva”[6].
Dunque anche se Teilhard “nega” l’esistenza “storica” di Adamo, non discute la portata del peccato originale, inteso come universalità del Peccato in ogni essere autocosciente. Anche quando afferma che “Più risuscitiamo scientificamente il Passato, meno troviamo posto sia per Adamo che per il Paradiso Terrestre”, immediatamente dopo Teilhard prosegue: “Il dramma dell’Eden sarebbe il dramma stesso dell’intera storia umana, […] Adamo ed Eva sono le figure dell’umanità in cammino verso Dio”[7].
Anche Bonhoeffer conferisce una “dimensione universale” a quella che definisce la “caduta” di Adamo ed Eva: “Non si tratta semplicemente di un passo falso di natura etica, ma della distruzione della creazione ad opera della creatura. Ciò significa che la dimensione di questa caduta coinvolge tutto il mondo creato, che si vede sottratta la propria creaturalità, ed ora precipita alla cieca nello spazio infinito, come una meteora che si è separata dal nucleo”[8].
Il peccato originale è un’azione dell’intera umanità, dunque non può essere limitato al peccato “delle origini”; pur avendo avuto origine in un passato definito, in un istante “storico” unico nel suo genere, è un evento costantemente presente nella storia di ciascuno e di tutti gli uomini.
Riguardo alla coppia primigenia, Bonhoeffer rigetta il concetto di “trasmissione mediante la generazione” di quello che definisce “peccato ereditario”, affermando che tale dottrina “è un cattivo tentativo di rendere conto del dato della condizione di peccatore. Essa inoltre offende anche l’umanità dell’uomo”[9].
La nostra riflessione entra ora nel “cuore” dello specifico cristiano: Gesù Cristo incarnato, crocifisso e risorto: unico “mistero” dell’amore di Dio per il mondo. Riguardo a questo “evento” i due autori mostrano assonanze e divergenze ma in ogni caso i loro scritti donano un illuminante contributo alla comprensione ed alla riflessione teologica contemporanea.
“Il primo atto dell’Incarnazione, – la prima apparizione della Croce, – è segnata dall’immersione dell’Unità divina nelle ultime profondità del Multiplo. Nulla può entrare nell’Universo se non ciò che ne esce. Nulla potrebbe mescolarsi alle cose se non attraverso la via della Materia, attraverso l’ascesa al di fuori della pluralità.
Un’intrusione di Cristo nel Mondo attraverso una qualsivoglia via laterale sarebbe incomprensibile. Il Redentore non ha potuto penetrare nella stoffa del Cosmo, infondersi nel sangue dell’Universo, se non fondendosi dapprima nella Materia per rinascerne in seguito. ‘Integritatem Terrae Matris non minuit, sed sacravit’. La piccolezza di Cristo nella sua culla, e le piccolezze ben più grandi che hanno preceduto la sua apparizione in mezzo agli Uomini, non sono solo una lezione morale di umiltà. Sono dapprima l’applicazione di una legge di nascita e, consecutivamente, il segno di una influenza definitiva di Gesù nel Mondo. Cristo non è più separabile dalla crescita dello Spirito, perché si è ‘inoculato’ nella Materia, – talmente incrostato nel Mondo visibile che non lo si potrebbe più estirpare se non facendo vacillare le fondamenta dell’Universo”[10].
In una sorta di “soluzione di continuità” Bonhoeffer “prosegue”: “Il Figlio di Dio, nell’incarnarsi, per pura grazia ha assunto il nostro essere, la nostra natura, ha assunto noi stessi veracemente, fisicamente. Questo era l’eterno decreto del Dio trinitario. Ora noi siamo in lui. Dove egli è, porta la nostra carne, ciò che noi siamo. Dove è lui, lì siamo anche noi, nell’incarnazione, sulla croce e nella risurrezione. Apparteniamo a lui, perché in lui siamo. Per questa ragione la Scrittura ci chiama corpo di Cristo. [...] La comunione cristiana è comunione per e in Gesù Cristo. Questa è la premessa su cui si fonda ogni prescrizione o regola della Scrittura per la vita comune dei cristiani”[11].
Teilhard si pone anche il problema del mondo preesistente all’Incarnazione del Figlio di Dio, tema che non compare nella riflessione teologica di Bonhoeffer: “Lo scorrere delle ere ricche di prodigi che hanno preceduto il primo Natale non è stato vuoto di lui, bensì è stato penetrato dal suo potente influsso. È stata la vibrazione del suo concepimento ad agitare le masse cosmiche e a dirigere le prime correnti della biosfera. È stata la preparazione del suo parto ad accelerare i progressi dell’istinto e lo sbocciare del pensiero sulla terra [...]. Erano del tutto necessarie le spaventose e anonime fatiche dell’Uomo primitivo, la lunga bellezza egiziana, l’inquieta attesa di Israele, il profumo distillato lentamente dai mistici orientali, la saggezza cento volte raffinata dei Greci perché sullo stelo di Jesse e dell’Umanità potesse schiudersi il Fiore. Tutte queste preparazioni erano cosmicamente, biologicamente necessarie perché il Cristo ponesse piede sulla scena umana. [...] Quando Cristo apparve tra le braccia di Maria, veniva dall’aver sollevato il Mondo”[12].
Al significato della croce di Cristo Teilhard dedica un meraviglioso capitolo de L’Ambiente divino, inserendo questo tema nella trattazione delle prospettive d’insieme dell’ascetica cristiana. L’autore esordisce ricordando come la Croce sia stata sempre considerata come “segno di contraddizione e principio di selezione tra gli uomini” (cfr. 1 Cor. 1, 23-25) e in particolare come essa venga presentata quale simbolo di tristezza, di limitazione, di rimozione, quasi come se il Regno di Dio possa essere realizzato solo “nel lutto” ed in contrasto con le aspirazioni umane[13]. Per Teilhard questa certamente non può essere la prospettiva cristiana; è infatti necessario “ampliare la prospettiva”, gradualmente, senza creare nessuno “scandalo” e nel rispetto delle “mirabili bellezze dello sforzo umano”.[14]
Per Teilhard la Croce significa “straziante evasione” dal Mondo, e perfino rottura con esso, ma una rottura intesa come sublimazione della legge di ogni vita umana.
La via della Croce è il cammino dello sforzo umano “sovrannaturalmente rettificato e prolungato”: il Crocifisso è il “simbolo e la realtà dell’immensa fatica secolare che, poco per volta, eleva lo spirito creato, per ricondurlo alle profondità dell’Ambiente Divino; rappresenta (in un senso vero, è) la creazione che, sorretta da Dio, risale la china dell’essere”.[15]
Ecco perché per Teilhard la Croce non è inumana, ma sovrumana ed il corpo sanguinante di Cristo non è un lugubre spettacolo, ma la rappresentazione di un “fuoco” che non invita a “dileguarsi” all’ombra di uno strumento di morte, ma ad elevarsi nella sua luce[16].
La riflessione di Bonhoeffer sull’evento-Croce si pone, a differenza di Teilhard, maggiormente sul piano etico, ma anche per Bonhoeffer “la croce non è una avversità o un duro destino, ma è quel patire che ci deriva solo a causa del nostro vincolo con Gesù Cristo. Non è sofferenza casuale ma necessaria […]; è patire e insieme l’essere riprovati a causa di Gesù Cristo. […] La croce non è la fine terribile di una vita felice e devota, ma sta all’inizio della comunione con Gesù”[17].
Riguardo all’aspetto “espiatorio” della croce di Cristo, Teilhard fa una forte e “coraggiosa” (per i suoi tempi…) affermazione: “Io dichiaro in piena sincerità: mi è stato sempre impossibile muovermi sinceramente a compassione davanti a un Crocifisso finché questa sofferenza mi è stata presentata come l’espiazione di una colpa che, sia perché non avesse alcun bisogno dell’Uomo, sia perché lo poteva creare diverso, Dio avrebbe potuto evitare”[18].
Si tratta di una visione del tutto innovativa, a dir poco “rivoluzionaria”, dell’ascetica cristiana tradizionale, visione che propone il superamento radicale di una fede prevalentemente “pietistica”, di un cristianesimo in cui l’aspetto sacrificale deborda fino ad oscurare la corretta valutazione positiva degli aspetti umani e delle realtà terrene: Gesù crocifisso è sempre “Colui che porta i peccati del Mondo”, ma il significato completo e definitivo della Redenzione non è più solamente espiare, è “attraversare e vincere”.[19]
Anche Bonhoeffer ritiene che il “mettersi sotto la croce”, guardando al Crocifisso, non equivalga a “miseria e disperazione”[20], ma si distacca da quanto abbiamo riportato sulla posizione di Teilhard, poiché ritiene che l’uomo debba “chinare il capo” al giogo di Colui che “procede con noi sotto lo stesso giogo”, assumendo la sua stessa croce[21]; l’autore affida il suo pensiero direttamente al Commento dei sette Salmi penitenziali di Lutero: “Non deve avvenire secondo il tuo intelletto, ma al di sopra del tuo intelletto [… ]; non sei tu, uomo e creatura, ma io stesso ad insegnarti la via entro la quale devi procedere [… ], questa è la mia chiamata, qui devi essere discepolo, questo è il tempo, qui il tuo maestro ti ha raggiunto”[22].
Sappiamo bene che se l’Incarnazione e la Croce di Cristo fossero rimasti due eventi meramente “storici” la nostra fede non avrebbe alcun senso: la redenzione dell’umanità fa parte del progetto di Dio fin dalla creazione del mondo. È inconcepibile separare l’evento-Redenzione (perché di evento si tratta) dall’evento-Croce di Cristo, così come i due eventi sono imprescindibili dall’evento-Creazione, che racchiude in sé il tema del peccato originale, e dalla (conseguente?) Incarnazione di Cristo.
A tale proposito ricordiamo la riflessione di Sergio Bonato, il quale afferma che la dottrina della Redenzione, strettamente legata a quella del peccato originale, non può essere inquadrata nelle coordinate dell’evoluzione senza una nuova formulazione, poiché in quella che viene definita “creazione evolutiva”, la Redenzione è l’implicito coronamento del piano creativo di Dio, non modificato dal peccato dell’uomo[23].
Inoltre, con estrema efficacia, Carlo Molari afferma che “Creazione e redenzione costituiscono un unico mistero nella prospettiva evolutiva di Teilhard de Chardin. Non è il peccato umano che introduce la necessità di un redentore, è l’essere attratti da una forza creatrice, da un amore redentore”[24].
Questo muta completamente il senso della parola “espiazione”. Pur persistendo, la “riparazione” passa in secondo piano rispetto al “portare a compimento la creazione nell’unione con Dio”, nella scoperta dell’amore rivelato da Gesù sulla croce[25].
Bonhoeffer pone l’accento sull’aspetto “terreno”, sulla valenza della Redenzione “qui e ora” per l’uomo, e non solo nella prospettiva di un “aldilà migliore: “Si dice che decisivo nel cristianesimo sarebbe il fatto che è stata annunciata la speranza della risurrezione, e che dunque così sarebbe nata un’autentica religione della redenzione. Il baricentro allora si sposta sull’aldilà rispetto al limite della morte. E proprio qui io vedo l’errore e il pericolo. Redenzione significa allora redenzione dalle preoccupazioni, dalle pene, dalle paure e dalle nostalgie, dal peccato e dalla morte, in un aldilà migliore. Ma sarebbe questo il punto essenziale dell’annuncio di Cristo contenuto nei vangeli e in Paolo?[26] Lo nego. […]. Il cristiano deve assaporare fino in fondo la vita terrena come ha fatto Cristo […]. L’aldiquà non deve essere soppresso prematuramente: Cristo afferra l’uomo al centro della vita”[27].
Al termine delle nostre riflessioni, peraltro non esaustive, sul pensiero e su alcuni testi dei nostri due autori, vorremmo porre l’accento su un altro aspetto che li accomuna: il valore del cristianesimo e la coscienza dell’essere cristiani per l’uomo che ambedue definiscono “d’oggi”, chiaramente riferito al loro tempo ma che è l’eterno “oggi” di ogni uomo, al di là delle epoche storiche.
Bonhoeffer esprime la sua preoccupazione sulla questione di “che cosa sia veramente per noi il cristianesimo o anche di chi sia Cristo oggi”[28]; ritiene superato il tempo in cui si poteva parlare di Cristo solo a parole, seppure “teologiche o pie”, basate su un “apriori religioso”. Si chiede inoltre come si possa parlare di Dio ai non credenti e come Cristo possa essere “Signore anche dei non-religiosi”, e si risponde affermando che i cristiani non possono considerarsi “religiosamente privilegiati”, ma piuttosto in tutto e per tutto appartenenti al mondo: “Cristo allora non è più oggetto della religione ma qualcosa di totalmente diverso: è veramente il Signore del Mondo. […] Io vorrei parlare di Dio non ai limiti ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. […] È al centro della nostra vita che Dio è aldilà”[29].
Inoltre, in una Omelia del 1932 Bonhoeffer esorta a “rimanere fedeli alla terra”, affermando che: “Oggi è decisivo che noi cristiani testimoniamo al mondo che non siamo viandanti delle nuvole, che non siamo indifferenti all’andamento delle cose, che la nostra fede non è l’oppio che ci rende contenti in mezzo a un mondo ingiusto. E invece che noi, proprio perché pensiamo alle cose dell’alto, tanto più appassionatamente e consapevolmente viviamo su questa terra”[30].
Teilhard non ha dubbi: parla di una “Umanità in procinto di diventare adulta” ed è proprio qui che “uno dei primi doveri apologetici del cristiano è quello di mostrare, con la logica delle prospettive religiose, e ancora meglio con la logica dell’azione, come il Dio incarnato non sia venuto a diminuire in noi la magnifica responsabilità né la splendida ambizione di farci noi stessi […] È [il Cristianesimo] un’anima possente che conferisce un significato, un fascino e una leggerezza nuova a ciò che già facevamo. Orienta, certo, i nostri passi verso cime inattese. Ma la salita che a queste conduce è talmente in armonia con quella che già naturalmente percorrevamo che niente è più definitivamente umano nel cristiano del suo stesso distacco”[31].
Concludiamo riportando due professioni di fede dei nostri autori, diverse riguardo all’impostazione del loro pensiero e del loro vissuto esperienziale, ma meritevoli di essere “contemplate” in tutta la loro poetica bellezza.
“È tenebra dentro di me, ma presso di Te è la luce; sono solo, ma Tu non mi abbandoni; l’animo mio è pavido, ma presso di Te è il soccorso; l’animo mio è inquieto, ma presso di Te è la pace; in me c’è amarezza, ma presso di Te è la pazienza; io non comprendo le Tue vie, ma la via retta per me Tu la conosci”[32].
“Se a seguito di qualche capovolgimento interiore dovessi successivamente perdere la fede in Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, a me sembra che io continuerei invincibilmente a credere nel Mondo. Il Mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del Mondo), ecco in ultima analisi, la prima, l’ultima e l’unica cosa in cui io creda. È di questa che io vivo. Ed è a questa fede che io, lo sento, all’ora della morte, oltre tutti i dubbi, io m’abbandonerò”[33].
Due voci: un’armoniosa melodia!
[1] In una lettera scritta all’amico Eberhard Bethge dal carcere militare di Berlino-Tegel, il 30 aprile 1944, Bonhoeffer afferma: “Ti meraviglieresti, o forse addirittura ti preoccuperesti delle mie idee teologiche e delle loro conseguenze”, riferendosi alla sua teoria secondo cui il “divino” non è solo nelle realtà assolute, ma nella forma umana naturale (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002, p. 376). Sembra quasi un’eco di una frase del meraviglioso testo di Teilhard, La messa sul mondo, dove leggiamo: “Poiché riconosco in me un figlio della terra ben più di un figlio del cielo, su tutto ciò che nella carne dell’uomo si prepara a nascere o perire sotto il sole che spunta, io invocherò il tuo fuoco” (Pierre Teilhard de Chardin, L’Inno dell’Universo, Il Saggiatore, Milano 1982, p.16.)
[2] Cfr. Pierre Teilhard de Chardin, Il Cuore della Materia, Queriniana, Brescia 1993.
[3] “La materia è lo sgabello di Dio”, in Pierre Teilhard de Chardin, La visione del passato, Il Saggiatore, Milano 1973, p. 221.
[4] Pierre Teilhard de Chardin, L’Ambiente divino, Il Saggiatore, Milano 1968, pp. 58-59.
[5] In una delle lettere scritte dal carcere Bonhoeffer, come in un grido, afferma: “Posso ben immaginare che qualche volta cominci a odiare il sole. E però, sai, vorrei poterlo percepire ancora una volta in tutta la sua forza, quando ti arde sulla pelle e a poco a poco infiamma tutto il corpo sicché sai di nuovo che l’uomo è un essere corporeo; […] vorrei che risvegliasse la mia esistenza animale, non quella animalità che sminuisce l’essere uomo, ma quella che lo libera dall’ammuffimento e dall’inautenticità di un’esistenza solo spirituale, e rende l’uomo più puro e felice”, in Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, op. cit., p. 468.
[6] Gustave Martelet, E se Teilhard dicesse il vero…, Jaca Book, Milano 2007, p.34.
[7] Pierre Teilhard de Chardin, Nota su alcune rappresentazioni storiche possibili del Peccato Originale, in La mia fede, Queriniana, Brescia 1992, p. 53.58.
[8] Dietrich Bonhoeffer, Creazione e caduta, Queriniana, Brescia 1992, p. 100. Questo testo è la trascrizione di un corso tenuto da Bonhoeffer all’Università di Berlino, nel semestre invernale del 1932/33.
[9] Dietrich Bonhoeffer, L’essenza della Chiesa, Queriniana, Brescia 1972, p.43.
[10] Pierre Teilhard de Chardin, Il mio Universo, in La scienza di fronte a Cristo, trad. Annamaria Tassone Bernardi, Il Segno di Gabrielli, Verona 2002, p. 88-89.
[11] Dietrich Bonhoeffer, Vita comune, Queriniana, Brescia 42001, p. 20.
12 Pierre Teilhard de Chardin, Il mio Universo, in La scienza di fronte a Cristo, op. cit., p. 89.
13 Cfr. Pierre Teilhard de Chardin, L’Ambiente divino, Il Saggiatore, Milano 1968, p. 110-111.
[14] Cfr. Ibidem, p. 112.
[15] Ibidem, p. 113.
[16] Ibidem, p. 114. A tale proposito è interessante l’affermazione di Romano Penna quando asserisce che nella teologia paolina scompare la “dimensione morale” per la quale la croce è la metafora delle prove e delle difficoltà che il discepolo debba affrontare per porsi alla sequela di Gesù; per san Paolo non ha senso dire, come leggiamo nei sinottici, che “ciascuno deve prendere la propria croce”: “La croce non è una metafora e soprattutto essa è sempre e soltanto la croce di Gesù Cristo, non del cristiano. […]. Ascoltare la parola della croce è come porsi personalmente di fronte alla croce stessa […], non si tratta di una scelta etica […]. La parola della croce non invita direttamente a vivere in un modo piuttosto che in un altro […] essa invita soltanto ad entrare in un dinamismo di comunione, che ha la sua radice ed il suo culmine nella pura grazia di Dio”, Logos paolini della croce e sapienza umana, in Romano Penna, Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 465.468.
[17] Dietrich Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 22001, p. 78-79.
[18] Pierre Teilhard de Chardin, Cristologia ed Evoluzione, in La mia fede, Queriniana, Brescia, p. 81 ss.
[19] Ibidem.
[20] Dietrich Bonhoeffer, Sequela, op. cit., p. 82.
[21] Ibidem
[22] Martin Lutero, Opere, in Dietrich Bonhoeffer, Sequela, op. cit., p. 83.
23 Cf. Sergio Bonato, Teilhard de Chardin e il Concilio Vaticano secondo, in Teilhard aujourd’hui, n. 5, marzo 2018, p. 149-153: “La Redenzione, nel quadro di una tale concezione dell’Incarnazione, viene confusa da Teilhard con essa. Passa in ombra l’aspetto di fallimento, di tragicità. La funzione redentrice del Cristo viene a coincidere con l’unificazione del Cosmo. La Redenzione, come l’Incarnazione, appare a Teilhard quale prolungamento della creazione”.
24 Carlo Molari, “Ossessione sacrificale della colpa. Dalla gioia dell’Annuncio evangelico, alla prova della coscienza riflessa teilhardiana”, in Teilhard aujourd’hui, n. 28, ottobre 2018, p.17.
25 Ibidem.
26 “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 1,20): “L’essenza della redenzione da parte del beneficiario, da parte dell’uomo, cioè del credente, è una comunione d’amore”, in Romano Penna, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1991, p. 393.
27 Dietrich Bonhoeffer, Lettera all’amico Eberhard Bethge, 27 giugno 1944, in Resistenza e resa, op. cit., p. 467.
[28] Ibidem, p. 378. 380-381
[29] L. Monti, Monaco a Bose, Commento al salmo 24, www.monasterodibose. it.
[31] Pierre Teilhard de Chardin, L’Ambiente divino, op. cit., p. 58-59.
[32] Dietrich Bonhoeffer, Preghiere per i prigionieri. Preghiera del mattino, in Resistenza e resa, op. cit., p. 190.
[33] Pierre Teilhard de Chardin, La mia fede, Queriniana, Brescia 1993, p. 101.