Le nuove dimensioni della cristologia

Carlo Molari

Le nuove dimensioni della cristologia[1]

 

Il mio compito è delineare le insufficienze e i limiti della cristologia del secolo scorso, al fine di sviluppare una cristologia nell’orizzonte evolutivo, che Teilhard de Chardin non ebbe la possibilità di sviluppare integralmente, condizionato dai limiti della cristologia nella quale era stato educato.

Il cammino compiuto da Teilhard de Chardin in ambito teologico è stato un lavoro di rifondazione in particolare proprio nella cristologia. Mentre nella teologia (in rapporto cioè a Dio e alla sua azione nel mondo) Teilhard è riuscito a formulare in modo esauriente ed efficace fin dai primi scritti il passo avanti necessario, per la cristologia è  rimasto impigliato nei presupposti imperfetti della scuola del suo tempo. Già nel Convegno di Milano del 2013 ho esposto gli sviluppi possibili in ambito della Incarnazione e della Redenzione in chiave evolutiva. Riprendo solo in parte quei temi.

Dopo un breve riassunto della cristologia teilhardiana considero tre aspetti: l’uso in cristologia della comunicazione degli idiomi, la fede di Gesù in contrapposizione alla visione beatifica che gli veniva attribuita, e infine riprendo alcuni aspetti della espiazione dei peccati e della soddisfazione offerta a Dio.

Può sorprendere che sia stata posta come prima relazione, ma credo sia per offrire a tutti gli interventi la possibilità di confutarne le conclusioni o di approfondirle in vista di uno sviluppo.

Introduzione

Inizio proponendo un testo teilhardiano dei più recenti (“25 ottobre 1953, festa di Cristo re, sotto l’equatore”[2]) “Il Vangelo dice che un giorno Gesù chiese ai discepoli: ‘quem dicunt esse Filium hominis?’ Al che Pietro rispose impetuosamente: ‘Tu es Christus filius Dei vivi’. Era ad un tempo una risposta ed una non risposta, poiché tutto il problema di sapere cosa fosse esattamente ‘Il Dio vivo e vero’ rimaneva aperto. Ebbene dalle origini della Chiesa tutta la storia del pensiero cristiano non rappresenta forse una sola, lenta e persistente spiegazione della testimonianza fornita da Pietro all’Uomo Gesù? Fenomeno assolutamente unico e strano! Mentre, ineluttabilmente, lungo il corso dei secoli, tutte le grandi figure dei profeti sfumano o si ‘mitizzano’, nella coscienza degli uomini, Gesù, Lui e solo Lui, diventa con il Tempo un essere sempre più reale per una parte particolarmente viva dell’Umanità; il ché avviene, comunque, attraverso un duplice moto che paradossalmente lo personalizza e, ad un tempo, l’universalizza sempre più, nello scorrere degli anni. Per milioni e milioni di credenti (scelti tra gli uomini più attenti), il Cristo da quando è apparso, non ha mai cessato dopo ogni crisi della Storia, di riemergere più presente, più urgente, più invadente che mai. Allora cosa gli manca dunque per potersi presentare, ancora una volta, al nostro Mondo nuovo, come il ‘nuovo Dio’ che attendiamo? Secondo me due cose, e soltanto due cose. La prima è che in un Universo nel quale non possiamo più seriamente considerare il Pensiero come un fenomeno esclusivamente terrestre, egli non sia più limitato costituzionalmente nel suo operare alla sola ‘redenzione’ del nostro pianeta. E la seconda è che in Universo nel quale ora, per i nostri occhi, tutto si coriflette in un solo asse, Egli non sia più offerto alla nostra adorazione (per via di una sottile e perniciosa confusione tra sopra-naturale ed extra-naturale) come un vertice distinto e rivale di quello al quale conduce l’ascesa biologicamente prolungata dell’Antropogenesi. Allo sguardo di un uomo svegliato alla realtà del Moto cosmico di Complessità-Coscienza che ci genera, il Cristo, quale la teologia classica continua a proporlo al Mondo, è ad un tempo troppo limitato (troppo localizzato) astronomicamente, e troppo eccentrico evolutivamente, per potere ‘cefalizzare’ l’Universo quale ci appare ora”[3].

Ho il forte dubbio che la previsione e l’attesa di Teilhard[4] resteranno deluse. Egli stesso d’altra parte conosceva il rischio: “è certo sempre pericoloso predire ed estrapolare”[5] ma nonostante tutto si dice convinto che i due Omega “(quello dell’Esperienza e quello della Fede) si preparano certamente a reagire l’uno sull’altro nella coscienza umana, e finalmente a sintetizzarsi: il Cosmico essendo sul punto di ampliare fantasticamente il Cristico, ed il Cristico (cosa incredibile!) d’amorizzare (cioè di dinamizzare al massimo) il Cosmico tutto intero”[6].

Credo che Gesù appartiene all’umanità e che perciò la sua salvezza riguardi solo l’umanità.

Prima di avanzare nella riflessione voglio relativizzare le convinzioni di Teilhard con le sue stesse parole scritte circa Le ombre della fede, che costituisce l’epilogo del Credo in questo modo, terminato il 28 ottobre 1934. Egli coglie con esattezza i limiti della Cristologia del suo tempo, che tuttavia non gli offre gli strumenti completi per il rinnovamento. Scrive: “secondo me, l’oscurità della fede è solo un caso particolare del problema del Male. E, per superarne lo scandalo mortale, non vedo che una via possibile: riconoscere che se Dio ci lascia soffrire, peccare, dubitare, significa che Egli non può, ora tutt’ad un tratto, guarirci e mostrarsi. E se non lo può fare, è solo perché siamo finora incapaci, in forza della stadio evolutivo attuale dell’Universo, di maggiore organizzazione e di più luce. Nel corso di una evoluzione che si svolge nel Tempo, il Male è inevitabile. Anche in questo caso, la soluzione liberatrice ci è offerta dall’Evoluzione. No: sono sicuro che Dio non si nasconde affinché lo cerchiamo, - neppure ci lascia soffrire per aumentare i nostri meriti. Anzi: chino sulla creazione che sale verso di Lui, Egli lavora con tutta la sua potenza, a beatificarla e ad illuminarla. Come una madre, Egli spia il suo neonato. Ma i miei occhi non saprebbero ancora percepirLo. Non ci vuole, forse ancora l’intera durata dei secoli perché il nostro sguardo si apra alla luce? I nostri dubbi, i nostri mali sono il prezzo e la condizione stessa di un compimento universale. Accetto pertanto di camminare sino alla fine lungo una strada di cui sono sempre più certo, in un orizzonte sempre più sommerso nella bruma. Ecco il mio modo di credere”[7].

Dubito che sia esatta l’osservazione dell’editore Norbert Wildiers che in nota[8] dichiara che le ombre, lungo il cammino di Teilhard, siano poi scomparse.

Dopo questa breve premessa esamino tre casi nel quali la cristologia del suo tempo ha impedito a Teilhard di assecondare la sua volontà rinnovatrice.

  1. L’uso della Comunicazione degli idiomi

Comincio da un aspetto secondario, ma molto incidente dal punto di vista linguistico.

La comunicazione degli idiomi è uno stratagemma letterario per cui si attribuiscono ad un soggetto  alcune qualità o caratteristiche proprie (idios in greco) di un altro soggetto per un rapporto stabile esistente fra loro. Per esempio l’attribuzione a Gesù Cristo della creazione è possibile solo per “comunicazione degli idiomi” in quanto è solo per mezzo del Verbo eterno che tutto è stato creato. L’attribuzione a Gesù Cristo della creazione è un’estensione legittima, ma analogica e metaforica, consentita soprattutto in ambito poetico e simbolico. Per questo appare negli inni riportati nelle lettere deutero paoline (Efesini e Colossesi) o nella lettera agli Ebrei.

Karl Rahner parla di “una maniera monofisitica e criptoeretica” di intendere “la predicazione logica degli idiomi”[9]. In realtà è molto facile nell’uso quotidiano passare dal senso analogico delle formule a quello proprio. Un esempio chiaro di questo passaggio si ha proprio nella riflessione del Padre francescano Gabriele Allegra nei suoi dialoghi con Teilhard. Per due volte egli riferisce l’incontro con due amici italiani formati all’Università cattolica di Milano i quali si chiedevano: “in un universo così grande e abitato in altri sistemi astrali, che posto ha Gesù Cristo? Quali sono le relazioni di questi esseri pensanti con Cristo? Egli nella impossibilità di farli parlare con Teilhard si avventurò in una riflessione di “teologia cosmica” spiegando in prospettiva teilhardiana Col. 1, 16-17: “tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui… e tutti gli esseri in Lui hanno consistenza” ed Eb.1, 2-3 “che costituì erede di tutte le cose… Lui che porta tutto con la parola sua onnipotente (o: con la parola della sua potenza)”[10]. Dove purtroppo i termini vengono abitualmente intesi in senso proprio e non analogico.

 

  1. La fede di Gesù

In questa stessa prospettiva vorrei ora proporre una riflessione sulla fede in Dio vissuta da Gesù lungo il cammino della sua esistenza.

 

2.1. Problema e spiegazioni tradizionali

La teologia tradizionale fino a poco oltre la metà del secolo scorso attribuiva a Gesù un triplice modo di conoscenza: la scienza beatifica, propria dei santi che godono della visione di Dio e in Lui conoscono la realtà creata, la scienza infusa, propria di alcune persone che in certe circostanze, in vista di una particolare missione nella storia, hanno intuizioni straordinarie, e la scienza sperimentale, ottenuta con l’uso dei sensi e la riflessione sulle esperienze quotidiane. Secondo queste teorie Gesù, fin dall’inizio della sua esistenza terrena, aveva già la conoscenza di tutte le cose che lo riguardavano e perciò in senso proprio non esercitava una vera fede in Dio. S. Tommaso scriveva in merito: “Oggetto della fede è l’essenza divina non vista. Ma Cristo nel primo istante del suo concepimento ha visto pienamente Dio… per cui non ci può essere stata fede in lui”[11]. Da questo principio i teologi derivarono conseguenze strane. La scuola carmelitana di Salamanca, ad es., attribuì a Gesù la conoscenza di tutte le verità naturali al punto da pensare che egli “non sia stato soltanto il migliore dialettico, filosofo, matematico, medico, moralista o politico, ma anche musicista, letterato oratore, artigiano, agricoltore, pittore, navigatore, soldato e così via”[12]. Ancora l’Enciclica Mystici corporis di Pio XII (29 giugno 1943) attribuiva a Gesù un’esplicita conoscenza di tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni paese.[13]

L’attività di Gesù si svolgeva come la realizzazione di un copione già scritto, pur coinvolgendo in profondità tutte le sue facoltà umane. Come un attore che entra nella sua parte in modo integrale e fedele, Gesù si sarebbe confrontato continuamente con la volontà del Padre e avrebbe fedelmente seguito la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di significato molti racconti evangelici e caricava alcuni altri di messaggi aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano completamente trascurate dai biblisti e dai teologi.

Già all’inizio degli anni 1960 K. Rahner osservava: “Agli orecchi di noi moderni, queste affermazioni suonano a tutta prima con un timbro quasi mitologico. Sembrano contraddire all’autentica umanità e storicità del Signore; paiono essere in contrasto a prima vista insanabile con il dato scritturale che notifica una coscienza in fase di graduale sviluppo in Gesù (Lc 2,52), che ci mostra un Signore in atto di dichiarare di non sapere nulla proprio su cose decisive in materia soteriologica (Mt 24,36; Mc 13,32), che ci addita un Gesù influenzato sin nell’intimo dalla spiritualità e dalla religiosità del suo tempo”[14] Anche se ancora Rahner restava nell’ambito della tradizione teologica, attribuendo a Gesù una conoscenza immediata di Dio, offriva però gli elementi per fare passi ulteriori e per superare quella divinizzazione della natura umana di Gesù, che egli stesso considerava una forma nascosta di eresia monofisita[15].

Riferendosi agli ultimi secoli della chiesa il teologo domenicano Christian Duquoc ha osservato: “Moltissimi teologi e predicatori non ebbero apparentemente altro scopo che quello di rendere insignificante l’esistenza storica di Gesù col pretesto di onorare la grandezza della sua divinità. Con questo s’operava una reinterpretazione del nuovo testamento sulla base di una idea prestabilita della divinità, mentre la strada che conduce ad essa è la realtà storica, umana, di Gesù. La resistenza stranamente tenace, lungo il corso della storia cristiana, a questo dato evangelico nasconde un modo particolare di vedere il nostro rapporto con Dio. La confessione su Gesù è fondata su una percezione che non viene dal vangelo, ma da una opzione culturale e religiosa, la quale fece giocare ai titoli di maestà riconosciuti a Gesù un ruolo che all’inizio non fu il loro”[16].

Negli ultimi decenni del secolo scorso è apparso sempre più chiaramente che la lunga e venerabile tradizione, che attribuiva a Gesù la visione beatifica e perciò non riconosceva in Gesù un’autentica vita di fede, non aveva solidi fondamenti.[17] Tutte le argomentazioni addotte, infatti, sia quelle di ispirazione biblica che quelle razionali, erano valide per la condizione gloriosa di Cristo, ma non per la sua esistenza terrena. D’altra parte il Concilio di Calcedonia (451) aveva chiaramente impedito ogni tentazione di divinizzare l’umanità di Gesù asserendo che l’unione tra natura divina e natura umana si attua “senza mutazione” e “senza confusione”, dato che il Verbo eterno resta integro nella sua divinità, e Gesù viene reso perfetto nella sua umanità attraverso il quotidiano rapporto con il Padre.

Oggi la teologia nega a Gesù conoscenze speciali non derivate dalla sua esperienza umana sperimentale o spirituale e gli attribuisce quindi una completa e autentica vita di fede, che è norma per la nostra fede. Egli infatti nel suo cammino secondo le formule della lettera agli Ebrei: è per noi “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1) “iniziatore e consumatore della nostra fede” (Eb.12, 2), e ciò per le straordinarie esperienze religiose da Lui compiute. Questa opinione sta divenendo sempre più comune perché, oltre ad essere più fedele alla immagine di Gesù quale appare dal Nuovo Testamento, corrisponde maggiormente ai dati della dottrina dogmatica.

“L’assoluta fiducia e al radicale disponibilità riguardo a Dio si possono intendere, unite insieme, come l’equivalente di quella che nella Scrittura viene chiamata fede. Dio è per Gesù uno con cui l’essere umano in ultima analisi deve entrare in relazione nella fede, e questa a sua volta può essere riposta unicamente in Dio”[18]. Nella nuova traduzione della CEI (2009) la lettera agli Ebrei attribuisce a Gesù il “il pieno abbandono a Dio” (Eb 5,7) che è appunto la fede per cui “venne esaudito”.

 

    1. La fede di Gesù in Paolo

Paolo in due versetti della lettera ai Galati (Gal 5,5-6) richiama la connessione profonda o l’intreccio della triade teologale (fede, speranza, carità) secondo un modello già enunciato nella sua prima lettera ai Tessalonicesi (“l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza” 1Ts 1,3), ripreso nella prima lettera ai Corinti (“Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma più grande di tutte è la carità” 1 Cor. 13, 13) e altrove.

Sorprendentemente però in questa riflessione sulla giustificazione non vi è alcun richiamo alla fede di Gesù. Sarebbe interessante vedere come cambia la prospettiva accogliendo l’opinione dei biblisti che leggono Rom.3,26 e Gal 5, 5 nel senso della fede di Gesù.

Secondo alcuni esegeti, infatti, S. Paolo utilizza tre formule quando descrive il rapporto tra la fede e Gesù. Si riferisce o alla nostra fede in Cristo o alla fede di Cristo in Dio o infine alla nostra fede in Dio per la testimonianza e in sintonia con Gesù. La prima formula (la nostra fede in Cristo) è la più frequente e si riferisce alla fede del discepolo in Gesù come Messia, Signore e “icona di Dio” (cfr. ad es. Rom 10,14; Fil 1,29; Col 1,5). La seconda formula si presenta in vari modi: la fede di Gesù, la fede di Cristo, o la fede di Gesù Cristo o la fede del figlio di Dio (pistis (Jesou) Xristou). È presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3, 22.26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12 ed è riferita soprattutto all’esperienza di Gesù in croce. La terza formula si riferisce alla fede in Dio esercitata dal discepolo per la testimonianza di Gesù e con la sua fede (es. Gal 2,19-20; 3,26). Aggiungo che anche la Lettera agli Ebrei si muove in questo orizzonte come quando scrive: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (Eb 5,7).

Il domenicano Paul-Dominique Dognin in “La fede di Gesù in S. Paolo[19] ritiene che “si tratta di una questione che ha notevole incidenza nell’analisi del pensiero di Paolo e nella vita del credente cristiano”. Paolo infatti utilizza la formula fede di Gesù per descrivere il modo come Gesù ha vissuto l’esperienza della croce. La croce è la rivelazione della fede del Figlio di Dio. Paolo, infatti, può dire: “Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Questa è la fede “che  deve essere rivelata. Così la legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. Tutti, infatti siete figli di Dio, mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,23-26). “Si scoprirà allora che per la sua fede donata ‘al Cristo’ il fedele ottiene il privilegio inaudito di poter vivere la sua povera fede in simbiosi con la fede invincibile ‘del’ Figlio di Dio (Gal 2,20) in senso proprio”[20].

La giustificazione quindi in questa prospettiva non è l’opera o il risultato della nostra povera fede, ma della fede di Cristo testimoniata nella fedeltà all’amore “sino alla fine” (Gv 13,1).

  1. La redenzione per espiazione e soddisfazione.

Anche su questo punto Teilhard aveva colto l’insufficienza della soteriologia del tempo. Scriveva nel 1933 “Io lo dichiaro in piena sincerità: mi è sempre stato impossibile muovermi sinceramente a compassione davanti a un Crocifisso finché questa sofferenza mi è stata presentata come l’espiazione di una colpa, sia perché non avesse alcun bisogno dell’Uomo, sia perché lo poteva creare diverso, Dio avrebbe potuto evitare. ‘Che cosa andava a fare in questa galera?’” [cita una battuta di Molière che esprime il non-senso di un guaio che si poteva evitare]. Ma tutto cambia in modo impressionante sullo schermo di un Mondo evolutivo… Il significato definitivo e completo della Redenzione non più solamente espiare:[21] è attraversare e vincere. Il mistero del Battesimo pienamente inteso, non è più lavare. I padri greci l’avevano ben visto: immergere nel fuoco della morte purificatrice ‘per essere’; non già l’ombra, ma gli ardori della croce. Io misuro chiaramente la gravità dei cambiamenti che queste prospettive nuove introducono”[22] Dopo avere citato le definizioni del Concilio di Trento sul Peccato originale continua “Eppure prego coloro che mi leggeranno di riflettere, in maniera imparziale e serena, sue due cose. La prima è che, per svariate ragioni scientifiche, morali e religiose, la raffigurazione classica della caduta, per noi è ormai solo un gioco ed un’affermazione verbale la cui espressione letterale non alimenta più né il nostro spirito, né il nostro cuore, nella sua rappresentazione materiale ha cessato di far parte del nostro cristianesimo e del nostro Universo. E la seconda cosa che un’esposizione dell’ordine che io suggerisco lascia interamente sussistere, e persino salva, nella sua essenza, proprio quella realtà e quell’urgenza della Redenzione che i Concili hanno tentato di definire […]. Le parole sono diverse ma la cosa rimane”[23].

P. Gabriele Allegra, nei già citati colloqui con Teilhard, presenta la dottrina di Duns Scoto secondo il quale “i dolori del Figlio di Dio crocifisso furono voluti da Dio: ad allicendum nos ad amorem suum…et quia voluit amplius teneri Deo, cioè furono questi inenarrabili dolori voluti dal Padre celeste, per attirarci al suo amore e perché così l’uomo amasse maggiormente Dio; e perciò, continua lo Scoto, nessuna grazia concernente la salvezza concede la SS.ma Trinità all’uomo viatore, se non per il merito di tale oblazione di Cristo, consumata sulla Croce, da una Persona dilettissima: il Figlio, e dal massimo amore: l’amore del Figlio”[24].

Oggi certamente Teilhard sarebbe contento scoprendo il cambiamento profondo realizzato nella soteriologia in due direzioni: nella modalità nuova di leggere l’espiazione biblica e nel rifiuto della soddisfazione anselmiana.

3.1  Aspetto creativo della redenzione

“Il Cristo evolutore: uno sviluppo logico del concetto di redenzione” (8 ottobre 1942).

“Intendo dire la necessità crescente in cui ci troviamo oggi di riadattare in un universo rinnovato le linee fondamentali della nostra cristologia”[25].

Il senso della Croce[26]

“La croce è sempre piantata…. Ma questo ad una condizione, ad una sola condizione. Ed  questa: che ampliandosi secondo le dimensioni alla misura di una nuova età, cessi di presentarsi a noi soprattutto (oppure esclusivamente) come il segno di una vittoria sul Peccato, tanto da raggiungere infine la sua pienezza, che quella di diventare simbolo dinamico e completo d’un universo in corso di Evoluzione personalizzante”[27]. Teilhard anche se vorrebbe non giunge a capovolgerne il senso.

3.2. Espiazione biblica

Lo ha fatto però la teologia attuale e proprio sotto la spinta della cultura evoluzionista.

Nell’uso attuale espiazione, in genere, significa: “liberazione e purificazione che compensa la colpa mediante il sacrificio”[28] o mediante la pena. Il dizionario filosofico Lalande la definisce: “Sofferenza imposta o accettata in seguito a una colpa e considerata come un rimedio o una purificazione, dal momento che la colpa è assimilata a una malattia o a una lordura dell’anima”[29]. In un senso più strettamente giuridico tende ad essere equiparato al castigo o punizione “lo scontare od il patire un male penale, per cui essa viene quasi identificata con la stessa retribuzione”[30]. “In questa prospettiva si può ben sostenere che il diritto penale ha come propria finalità specifica l’espiazione della colpa e di conseguenza il ricupero sociale del reo”[31]. In senso religioso espiazione viene quindi intesa come: “pena imposta da Dio come punizione dei peccati e nello stesso tempo mezzo di purgazione delle colpe”[32]; oppure: “riparazione di un torto fatto a Dio mediante il pentimento e opportuni atti di contrizione”[33].

Nell’uso teologico cristiano il termine ha acquistato sfumature diverse secondo la varietà delle teorie che nei secoli sono sorte per interpretare l’azione salvifica di Cristo e il suo rapporto con Dio. Nei primi decenni del sec. XX i teologi cristiani cominciarono ad avvertire le difficoltà dell’espiazione penale e distinsero chiaramente tra castigo o punizione ed espiazione. Rivière riporta alla lettera una pagina di L. Heinrichs che precisa così i termini. “Con il nome di castigo in senso proprio bisogna intendere non solo una pena inflitta, ma inflitta precisamente per riparare l’ordine distrutto e la trasgressione volontaria. Gli altri fini medicinali, meritori o altri non sono necessariamente esclusi; ma essi devono essere subordinati al fine primario e capitale… Se ora dalla nozione di castigo riteniamo una sola componente, cioè il fatto di sopportare un male, e se scartiamo l’idea di vendetta, per sostituirla, in colui che infligge la pena, con un sentimento di compiacenza per la generosità di colui che accetta volentieri questo ruolo di sofferenza, abbiamo l’idea di espiazione[34]. Tale modo di intendere l’espiazione è rimasto a lungo nei manuali teologici.

Oggi però ci si è resi conto che il significato corrente di espiazione non corrisponde all’uso ebraico e al valore della radice kpr (verbo kipper e sostantivo kippur), che significa coprire, purificare, cancellare. Kippur indica perciò l’atto con cui Dio cancella o copre i peccati e purifica quindi i peccatori.[35] Giustamente E. Wiesnet, che cita Häberle[36], sostiene che per corrispondere all’uso ebraico i termini attuali dovrebbero subire una “rivoluzione copernicana”.[37]

Nella tradizione ebraica esiste una festa chiamata giorno della purificazione (yom kippur) o delle espiazioni (yom hakkipurîm), descritta dettagliatamente nel libro del Levitico.[38] Il rito risulta da due tradizioni, fuse nel dopo/esilio: la prima consisteva nel sacrificio di un montone, sacrificato per le colpe commesse durante l’anno dal Sommo sacerdote e da “tutta la comunità di Israele”. La seconda è costituita dal rito del capro espiatorio.[39]

L’uccisione rituale del montone serviva a procurare il sangue che veniva raccolto, portato nel Santa sanctorum, asperso sul kaporet o propiziatorio, l’aurea lamina che sostituiva l’arca nel secondo tempio, e poi versato sull’altare. A proposito del rituale trasmesso dal Levitico, G. Deiana dopo una dettagliata ricostruzione storica conclude: “Si nota un graduale ampliamento dei riti espiatori: mentre infatti in Ez 45, 18-20 una solo vittima espia e purifica, già in Lev 9 si nota una procedura più complessa: le vittime di espiazione diventano due (una per Aronne e una per il popolo). In Lev. 16 vengono raddoppiati anche i riti di sangue (vv. 14-15) e le aspersioni diventano sette (vv.18-19). Come se tutto ciò non bastasse, viene introdotta la cerimonia del capro emissario, che, a rigor di logica, non avrebbe ragion d’essere, visto che le colpe erano già state eliminate dai riti precedenti. Si ha quasi la sensazione che la moltiplicazione dei riti nasconda una certa sfiducia nei medesimi”[40].

Il significato simbolico del rito deriva dalla convinzione che il sangue fosse la sede della forza vitale comunicata da Dio, e che, inserito in un rito sacro, fosse l’ambito della sua azione salvifica. Il sangue a contatto del kaporet e posto sull’altare era come caricato di potenza divina, in grado di riversare sul popolo intero la benedizione e la misericordia di Dio. “Il motivo per cui Dio ha dato il sangue da porre sull’altare è che quel sangue... espia mediante la vita che è contenuta in esso. Ciò significa che il sangue… toglie il male che… è sorgente di rovina e, per l’uomo, di morte... Il testo ebraico quindi assegna, senza ombra di dubbio, la funzione espiatrice al sangue in quanto principio di vita. La morte dell’animale... assume un ruolo secondario: è soltanto il presupposto per avere lo strumento della vita”[41]. Il messaggio fondamentale quindi del sacrificio di espiazione è che la forza divina concentrata nel sangue dona vita e purifica dai peccati.[42]

I termini ebraici, quindi, relativi all’espiazione si riferiscono ad un’azione purificatrice di Dio che si esercita abitualmente attraverso il sangue, ma che di per sé non implica la sofferenza del peccatore come pena del peccato commesso. Nella concezione ebraica, la punizione del peccato da parte di Dio avveniva attraverso gli eventi storici e le conseguenze tragiche delle scelte negative. Il sacrificio di espiazione costituiva, invece, la fine del dissidio con Dio dato che era il momento della riconciliazione e il sangue esprimeva la potenza riconciliatrice della misericordia divina.

“Il soggetto dell’espiazione quindi è Dio il quale attiva il suo perdono attraverso il rito espiatorio. L’azione espiatrice inoltre, viene esplicata mediante la purificazione dell’offerente il quale, attraverso la sacralità del sangue, rientra in sintonia con la divinità”[43]. R. Fabris riferendosi a queste riflessioni conclude: “Nel rituale dell’espiazione il soggetto del verbo kipper, ‘espiare’ è Dio, per cui questo ‘espiare’ equivale a ‘perdonare’. In tale contesto non trova posto l’idea dell’espiazione vicaria dove la vittima o il sangue dell’animale ucciso sta al posto dell’offerente peccatore”[44]. In questo orizzonte appare chiara la dinamica dell’espiazione biblica. Dio purifica il peccatore, ‘copre’ i suoi peccati, li cancella, non ne tiene conto.(Cfr. Ger 31,34 che parla della nuova alleanza: perdonerò le loro iniquità, non mi ricorderò più del loro peccato). Anche G. Iammarrone osserva “Tuttavia va ricordato che alla concezione del sacrificio per espiare (kipper) era sottesa l’idea che fosse Dio ad operare per pura grazia l’espiazione/purificazione/cancellazione del peccato e delle impurità cultuali che l’individuo e il popolo potevano aver contratto. S. Paolo ha davanti a sé il sacrificio di espiazione dell’AT, in particolare quello dello Yom Kippur, quando sostiene che Dio (il Padre) ha posto Gesù Cristo crocifisso (Risorto) quale strumento di espiazione nel suo sangue per attuare la sua iniziativa di misericordia verso l’umanità peccatrice (cfr. Rom 3,25). Allora è Dio stesso che per pura grazia espia, vale a dire cancella il peccato dell’uomo in Cristo e per Cristo e in maniera sovrabbondante”[45].

Il Catechismo della CEI La Verità vi farà liberi scrive: “Espiazione è da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo (Cf Eb 9,11-28; 10,5-8). Cristo non è stato condannato da Dio al posto nostro, anche se ha sofferto al posto nostro e a vantaggio nostro (cfr. 2 Cor 5,14). Dio lo ha consegnato non condannato; lo ha fatto diventare ‘maledizione per noi’ (Gal 3,13), ma non è stato Lui a maledirlo. L’amore di Dio ha fatto di Cristo lo strumento di espiazione (Cfr. Rom 3, 25;1 GV 4,10 [anche 2,2], cioè di purificazione dei nostri peccati, di riconciliazione dei peccatori e di restaurazione dell’alleanza. La croce del redentore non ci esime dal portare la nostra. Al contrario ci risana e ci rimette in piedi, perché camminiamo sulle sue orme. Siamo chiamati, come lui, a servire gli altri, accettando fatiche, rinunce e sofferenze (cfr. 1Pt 2,21)”[46].

A una conclusione analoga (ma più attenta all’aspetto sociale) giunge Wiesnet partendo dall’analisi dei termini relativi alla giustizia divina. Egli dopo aver mostrato che “secondo la Bibbia tutte le sanzioni nei confronti delle condotte umane sbagliate devono avere carattere di ‘riconciliazione’”, riguardo al significato dell’espiazione, dal punto di vista antropologico, conclude: “in futuro anche il concetto di ‘espiazione’ non potrà più essere distrattamente espresso con un semplice ‘pagare sopportando l’imposizione di un male penale’! Simile modalità tradizionale di comprendere la ‘espiazione’ non è altro che una variante mimetica del termine ‘retribuzione’, rispetto alla quale dall’intelligenza complessiva della Bibbia non è possibile trarre legittimazione alcuna. Come ‘espiazione in senso biblico’ può intendersi solo lo sforzo reciproco della società e dell’agente di ricostruire fra loro la comunione turbata e ferita dal reato. Dal punto di vista cristiano, l’espiazione dev’essere vista come processo dialogico di riconciliazione, non come offerta unilaterale e passiva di soddisfazione in rapporto all’inflizione di un male penale”[47].

3.3. Soddisfazione e sacrificio

Un termine utilizzato abitualmente in soteriologia per spiegare il valore salvifico della morte di Gesù è soddisfazione. Il termine “soddisfazione” non è biblico. Significa “risarcimento o riparazione dovuta per aver procurato o subito un danno o un’offesa”[48]. È stato utilizzato nella tradizione per esprimere il compenso che Gesù avrebbe offerto a Dio per le offese ricevute dagli uomini peccatori. Il senso antropomorfico del termine ha inquinato per molti secoli la soteriologia. Nelle sue diverse coniugazioni è da abbandonare. Greshake osserva che S. Anselmo “è il primo che costruisce esplicitamente la soteriologia sull’assioma ‘aut satisfactio aut poena’ che Tertulliano aveva sviluppato nella teologia della penitenza”[49].

Secondo questa teoria Gesù nella sua morte avrebbe soddisfatto Dio offrendogli una retribuzione o compenso dovuti per i peccati degli uomini. L’idea non è biblica ma di derivazione giuridica, in particolare essa è propria del diritto romano, del diritto canonico e di quello germanico, e si riferisce a un modo specifico di riparare il male commesso. In generale la soddisfazione è definita “compensazione sufficiente in vece o a favore di una persona per un debito materiale o morale, di cui essa per propria colpa è debitrice, secondo giustizia verso una terza persona”[50]. Di per sé, quindi, soddisfazione “non indica il pagamento totale di un debito o la compensazione rigorosa del male commesso. Satis-facere significa fare abbastanza. Nel diritto romano la soddisfazione sostituiva il pagamento di un debito: il creditore liberava il debitore che aveva fatto ciò che aveva potuto, che aveva fatto abbastanza”[51]. Nella tradizione cristiana questo concetto è stato applicato al rapporto fra Dio e l’uomo sia nella riconciliazione sacramentale sia, più tardi nella soteriologia. Nel primo caso indica il coinvolgimento personale del peccatore, che con atti di penitenza esprime l’efficacia salvifica della grazia accolta.[52] Nella soteriologia indica il gesto d’amore con cui Gesù ha offerto la sua sofferenza a Dio come ‘compenso’ e ‘riparazione'’delle offese dei peccati. In quest’ultimo caso è stata detta anche soddisfazione vicaria, in quanto offerta per conto o al posto degli uomini.

Nella soteriologia l’uso del termine soddisfazione è antico[53] ma solo con S. Anselmo acquista un valore sistematico e diventa comune. Egli infatti, è “il primo che stringe in un sistema rigoroso i motivi di redenzione presenti nella Scrittura e nella Patristica, mettendo al centro e privilegiando il motivo occidentale della satisfactio[54]. L’opera nella quale S. Anselmo sviluppa la sua spiegazione della redenzione attraverso la categoria della soddisfazione è il breve scritto Cur Deus homo[55]. La teoria anselmiana, come è noto, poggia su due concetti fondamentali: il peccato come offesa dell’onore dovuto a Dio, e la necessità di una riparazione, volontaria (soddisfazione) o imposta (pena). “Nell’ordine dell’universo nulla è così intollerabile quanto il fatto che la creatura tolga al creatore il debito onore e non restituisca quello che gli ha tolto”[56]. “Chi non dà a Dio questo onore dovutogli, gli toglie ciò che è suo e disonora Dio: e questo è peccare. Fino a quando non ridà quello che ha rubato, rimane nel peccato”[57]. La giustizia esige che sia restituito ciò che è stato tolto e in più che venga offerta “una riparazione gradita al disonorato, per il dolore recatogli disonorandolo. Questa è la soddisfazione di cui ogni peccatore è in debito con Dio”[58]. L’ordine della creazione esige che se l'uomo non vuole dare la soddisfazione dovuta, debba subire una pena: “È dunque necessario che o sia restituito l’onore tolto, o venga inflitta la pena”[59]. “È necessario che a ogni peccato segua la soddisfazione o il castigo”[60].

Ma l’uomo, con il suo peccato, si è posto nella condizione di dover soddisfare a Dio ma di non poter fare nessuna offerta che non Gli sia già dovuta in quanto creatore. Egli “liberamente si obbligò al debito che non può pagare”, per cui è doppiamente colpevole.[61] D’altra parte è necessario per Dio portare a compimento l’azione creatrice nei confronti dell’uomo e toglierlo dalla condizione di peccato. Siccome nessun uomo è in grado di offrire una soddisfazione proporzionata all’offesa infinita fatta a Dio e solo un uomo/Dio è in grado di “pagare a Dio, per il peccato dell’uomo, un prezzo più grande di tutto ciò che esiste all’infuori di Dio”[62], ne consegue la necessità di una incarnazione. Essa consente a Dio di offrire all’uomo la possibilità di soddisfare per il suo peccato in maniera proporzionata all’offesa recata al suo onore.

La teoria anselmiana ha esercitato notevole influsso nella teologia cristiana[63] con sviluppi eterogenei soprattutto per la coniugazione con la categoria della espiazione,[64] e ancora suscita discussioni.[65]

S. Anselmo non parla mai di espiazione, né di sacrificio, né di riscatto. Parla invece di riparazione e di restaurazione dell’uomo. “La soddisfazione è formalmente differente dal castigo… Il castigo è subìto per forza e non ha alcun valore soddisfattorio, mentre la soddisfazione è offerta di buon grado come un omaggio riparatore. Il dilemma anselmiano esclude quindi ogni considerazione della morte di Cristo come una punizione imposta da Dio. D’altra parte la soddisfazione, toccando il rapporto del finito con l’infinito, partecipa alla dialettica della trascendenza: una soddisfazione infinita fuoriesce dall’ordine della corrispondenza quantitativa fra peccato e riparazione ed entra in quello della gratuità”[66].

I teologi, soprattutto in base agli sviluppi successivi del modello anselmiano, non imputabili direttamente al suo autore, hanno messo in luce i punti deboli dell’argomentazione. S. Anselmo utilizzava modelli giuridici antropomorfici, non teneva conto della risurrezione come momento salvifico e non spiegava perché mai Dio non avrebbe potuto perdonare spontaneamente il peccato dell’uomo rinunciando a ciò che l’uomo dovrebbe offrire pur essendo impossibilitato a farlo. Egli si limita ad affermare che sarebbe “un oltraggio attribuire a Dio questa misericordia”[67]. Ma il Dio rivelato da Gesù è misericordioso senza limiti e senza ragioni: perdona senza chiedere nulla. Dio è amore misericordioso e la nostra salvezza non sta nella riparazione del peccato, ma nell’accoglienza dell’amore divino. Il difetto fondamentale è il capovolgimento della dinamica redentrice che nella Bibbia era espressa con il termine espiazione nel senso discendente.[68] L’uso della soddisfazione, soprattutto negli sviluppi successivi a S. Anselmo[69], ha capovolto il senso dell’espiazione biblica rendendola ascendente: l’offerta dell’uomo Gesù a Dio per compensare l’offesa fatta dagli uomini. L’insistenza sulla necessità della sofferenza e della morte di Gesù, ha reso difficile capire il reale cammino storico compiuto da Gesù e il significato della sua fedeltà.

Per l’ambiguità che essa comporta la teologia della soddisfazione deve essere abbandonata, anche se il termine è ancora utilizzato in un senso più ampio e generico. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della soddisfazione soprattutto in rapporto al sacramento della riconciliazione. In ordine alla redenzione scrive solo: “È l’amore ‘sino alla fine’ (Gv 13,1) che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di soddisfazione e di espiazione al sacrificio di Cristo”[70]. Il Catechismo degli adulti della CEI chiarisce che “soddisfazione vuol dire che la croce di Cristo ricostruisce l’ordine oggettivo del mondo e il suo giusto rapporto con Dio, riparando i danni causati dal peccato. La sua è una giustizia giustificante, che rende giusto chi non lo è e concretamente coincide con la sua misericordia”[71].

 

Conclusione

Nella visione evolutiva il modello della riparazione giuridica, sia personale che vicaria, in qualsiasi modo venga intesa, non ha più alcun significato. L’uomo infatti, inserito in un processo vitale, diventa il male (o il bene) che compie. Egli deve diventare, non può farne a meno. Il peccato può essere riparato solo dalla novità di vita del peccatore. L’azione creatrice di Dio offre sempre nuove possibilità e può sempre essere accolta, ma non si sostituisce mai alle creature né le completa dal di fuori. Il peccatore deve cambiare accogliendo l’azione rinnovatrice di Dio, deve realmente diventare nuovo. Il reale divenire del peccatore si realizza solamente accogliendo l’azione misericordiosa e gratuita di Dio, il quale non chiede nulla per offrire perdono. Papa Francesco richiamando “la continuazione dell’azione creatrice”[72] scrive in modo chiaro: “lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo[73].

Roberto Mancini osserva con molta coerenza: “La logica evangelica non è quella dello scambio, è quella della gratuità e del prendersi cura. È la logica della giustizia che guarisce e non colpisce perché la misura di riferimento è quella dell’amore che incondizionatamente vuole il bene di chi è amato”[74].

Egli però aggiunge “il fatto di avere configurato la logica evangelica come logica dello scambio supremo – il ‘sacrificio’ di Cristo in cambio della salvezza -  ha avuto e ha conseguenze di portata profondissima non solo per la cristianità ma per la società in generale” (ib.). Ne deriverebbe come conseguenza che “siamo fatti non per la felicità, ma per la sofferenza; della felicità siamo indegni e la sofferenza è meritata; il primato dei valori supremi e delle autorità, a partire dal Sacro, implica la produzione di vittime non riconosciute come tali”[75].

Nella prospettiva evolutiva invece la creatura non viene punita perché è fatta per la felicità e tutta la storia della salvezza è la tensione profonda del reale verso una pienezza di vita alimentata dalla forza creatrice. Il male e il limite sono componenti necessari del processo perché la creatura non può accogliere in un solo istante tutta la perfezione che viene donata. Accettare i limiti e la fatica del vivere è necessario in modo assoluto per la creatura, non come punizione ma come condizione per allargare gli spazi della propria persona, accogliere l’azione di Dio e divenire suoi figli.

Anche in questa visione, tuttavia, è pienamente condivisibile ciò che scrive Mancini: “Tra sacrificio e dono c’è una profonda differenza che intercorre tra il dare la morte e il dare la vita. Far coincidere le due cose è indice quanto meno di grande confusione e di scarsa lucidità. Se l’operazione di identificazione tra i due termini viene fatta nel contesto della fede cristiana, intesa come religione, diventa ancora più forte la contraddizione tra ciò che gli uomini pensano di Dio e ciò che Dio rivela di sé e della sua volontà…[76]“.

Per giungere a questa conclusione Mancini non si richiama al modello evolutivo, ma preferisce negare che il cristianesimo sia una religione: “Contro l’evidenza dell’ovvietà acquisita nella nostra cultura, non è affatto detto che il cristianesimo sia una religione”[77]. “Nel cristianesimo così inteso il sacrificio è il fondamento non solo concettuale, ma mitico e rituale di tutto il versante clericale, dualistico, autoritario e devozionistico della tradizione ecclesiale. Mentre la fedele tradizione della Chiesa, spesso marginale e poco riconosciuta, si fonda sulla vita e sulla parola di Gesù, tale altro tipo di tradizione, quella della cristianità religiosa, ha nel sacrificio il nucleo del suo mito fondatore. Ma in realtà si tratta di un mito estraneo al Vangelo”[78].

Non credo sia possibile negare il carattere religioso del cristianesimo, se per religione si intende la struttura simbolica della fede vissuta. Si tratta in definitiva di dare a “sacrificio” un possibile senso discendente: intendendo cioè, l’azione con cui Dio comunica forza vitale alla creatura che si affida senza riserva.

 

 

 

 

[1] Intervento al Convegno Dimensioni cosmiche della cristologia. Per un Cristo sempre più grande, organizzato dall’Associazione Italiana Teilhard de Chardin, Bologna, 21-22 ottobre 2017. Ripubblicato in "La saggezza e l'esperienza. Diafania di una luce fulgida sul sentiero del sentire", Quaderni di Teilhard aujourd'hui 7/II (2019)

[2] Pierre Teilhard de Chardin, Il Dio dell’evoluzione, in  La mia fede, Queriniana, Brescia 2008 p. 238 (pubblicato nel Cahier VI della Fondazione Teilhard de Chardin (Seuil, Paris 1968)

[3] Pierre Teilhard de Chardin Il Dio dell’evoluzione, in  La mia fede, Queriniana, Brescia 20082 p. 236 s.

[4] Pierre Teilhard de Chardin, ivi p. 238: lo scritto termina in questo modo “Ecco ciò che prevedo. Ecco ciò che attendo”.

[5] Pierre Teilhard de Chardin, ivi p. 237.

[6] Pierre Teilhard de Chardin, ivi pp 237 s.

[7] Pierre Teilhard de Chardin, Credo in questo modo, in La mia fede,  cit. p. 125.

[8] Norbertus M. Wildiers, p. 126.

[9] Karl Rahner, Problemi di cristologia d’oggi, in Saggi di cristologia e mariologia, Paoline, Roma 1965 p.58.

[10] Gabriele Allegra, Il primato di Cristo in S. Paolo e Duns Scoto. Le mie conversazioni con Teilhard de Chardin, Porziuncola, Assisi  2011 p. 40. L’episodio è ricordato anche a p. 46: “in base a tale esegesi, non mi fu difficile rispondere ai due amici italiani che, e per le dimensioni sempre crescenti dell’Universo e per la possibilità di altri mondi abitati, erano dubbiosi della loro fede che sia l’Universo che questi ipotetici esseri ragionevoli, si connettono a Cristo,  sono creati per Lui, dipendono da Lui”.

[11] Tommaso d'Aquino, Summa theologiae III, q. 7, a. 3.

[12] Cursus theologicus, Tratt. 221 De incarnatione, disp. 22, dub 2, 4 n.29 (éd. Paris-Bruxelles-Génève 1880) t. XV, p. 320. (Citato in  Jean Galot, Chi sei tu o Cristo? L.E.F., Firenze 1977 pp. 317-318).

[13] Pio XII, Lettera Enciclica Mystici Corporis, AAS 36 (1943) (pp. 193-248) qui p. 230.

[14]  Karl Rahner, Considerazioni dogmatiche sulla scienza e coscienza di Cristo, in  Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 201 (La conferenza è del 1961).

[15] Karl Rahner rileva “qualche ideuccia docetistica e monofisitica… quando i cristiani parlano dell’incarnazione di Dio” (Teologia dell’incarnazione, in cit. p.117) e conclude: “Se il monofisitismo e il monotelismo... saranno veramente eliminati dalla nostra cristologia concreta e vissuta, non solo nelle formulazioni estreme della loro tesi ma anche nella nostra comprensione originaria e senza riserve religiose, riusciremo più facilmente ad instaurare un rapporto libero e piano sui risultati cui l’odierna esegesi è giunta a proposito del Gesù storico”. La cristologia fra l’esegesi e la dogmatica, in Nuovi Saggi 4, Paoline, Roma 1973 p.271. Il monofisismo, difeso da Eutiche, un archimandrita di Costantinopoli, divinizzava la natura umana di Gesù attribuendole qualità divine. Fu condannato a Calcedonia, quarto Concilio ecumenico, nel 451.

[16] Christian Duquoc, Gesù, uomo libero, Queriniana, Brescia 1974 pp.156-157.

[17] “La visione beatifica del Gesù terrestre manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura, né dalla tradizione patristica” Jean Galot, Chi sei tu o Cristo? L.E.F., Firenze 1977 p. 324.

[18] Jon Sobrino, Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth, Cittadella, Assisi 1995 p. 269. Egli poi analizza i diversi passi biblici che richiamano la fede in Dio esercitata da Gesù nel sua cammino storico pp. 271-274. Cfr. anche Wilhelm Thüsing, La fede orante di Gesù secondo Mc 9,23 e La fede di Cristo in Paolo, in Karl Rahner – Wilhelm Thüsing, Cristologia: prospettiva sistematica ed esegetica, Morcelliana, Brescia 1974 pp.253-263. Christian Duquoc, La speranza di Gesù, in  Concilium,  1970 n. 9 pp.37-48.

[19] In Revue des Sciences Phil. et Théol. n. 4/2005 pp. 713-728.

[20] Paul-Dominique Dognin, ib. p. 713 Dognin, ricordava che già dal 1891 uno studio sulla lettera ai Romani dell’esegeta tedesco Johannes Haussleiter sottolineava l’importanza della distinzione fatta da S. Paolo tra la fede di Gesù in Dio e la nostra fede in Gesù. All’inizio del secolo scorso (1906) un altro celebre esegeta tedesco, Rudolf Kittel, “deplorava il fatto che quell’articolo non avesse avuto l’accoglienza che meritava”. La croce è la rivelazione della fede del Figlio di Dio (Gal 3,23 e 2,20). Se l’essenziale dell’esperienza di Gesù sulla croce è la sofferenza sostenuta per amore, argomenta Dognin, “si penserà che sono queste sofferenze a salvarci. Ma se questo ‘essenziale’ è una fede umana che sopporta vittoriosamente un parossismo di sofferenza tentatrice, pervenendo in tale modo a una ineguagliabile ‘perfezione’, si dovrà giustamente pensare che a salvarci sia questa fede vittoriosa. Si scoprirà allora che per la sua fede donata “al Cristo”, il fedele ottiene il privilegio inaudito di poter vivere la sua povera fede in simbiosi con la fede invincibile ‘del’ Figlio di Dio (Gal. 2,20) in senso proprio” (ib p. 713).

[21] Norbertus M. Wildiers aggiunge in nota che la sottolineatura è sua per “far vedere come P. Teilhard neghi la necessità della espiazione” La mia fede, cit. p. 88 n. 7.

[22] Pierre Teilhard de Chardin, Cristologia ed evoluzione, Natale 1933 in La mia fede, cit. p. 88.

[23] Pierre Teilhard de Chardin, Cristologia ed evoluzione, ivi. pp. 88 s..

[24] Gabriele Allegra, Le mie conversazioni con P. Teilhard de Chardin, cit.,  p. 68.

[25] Pierre Teilhard de Chardin, Il Cristo evolutore in La mia fede pp. 133-144 qui 140-141.

[26] Pierre Teilhard de Chardin, Un’estensione e un approfondimento del senso della croce, in ibid., pp. 203-213 qui p. 210, 14 settembre 1952.

[27] Pierre Teilhard de Chardin, ivi p. 213.

[28] Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Dizionario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Rider Digest, Milano, 1967 alla voce Espiazione.

[29] Citato da Bernard Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza, 1, S. Paolo Cinisello Balsamo 1991, 331 n. 1.

[30] Eugen Wiesnet, Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto fra cristianesimo e pena (tr. it. di Luciano Eusebi) Giuffré ed. Milano 1987, 67 cfr. anche: “pagare sopportando l’imposizione di un male penale”, 122.

[31] D’Agostino F., Diritto, VI Giustizia, carità, pena in Teologia, Dizionari S. Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 2002, p. 471.

[32] Grande Dizionario della lingua italiana, (Battaglia), Utet, Torino 1968, 381. L’etimologia della parola italiana è indicata nel verbo latino expiare: “Voce dotta, lat. expiatio -onis, derivato da expiare ‘placare l’ira degli dei’, passata dal latino della Chiesa, dove expiatio traduce il greco cristiano agnismòs ‘purificazione’”, 381.

[33] Grande Dizionario della lingua italiana, (Battaglia), 380.

[34] Ludwig Heinrichs, Die Genugtuungstheorie des hl. Anselmus, citato da Jean Rivière, Rédemption, in DTCh 13 (1939) 1969s .

[35] L’ambiguità dei termini attuali riguarda anche le formule del greco e del latino che traducono l’ebraico kipper rispettivamente con agnìzo (con il corrispondente sostantivo agnismòs): purifico con acqua e fuoco, purifico con sacrifici, sacrifico per, espio, tengo puro da (apo) (Lorenzo Rocci, Dizionario della lingua greca, Soc. Dante Alighieri, Città di Castello, 231971), e expiare (con il corrispondente expiatio): purgare, purificare, espiare.

[36] Otmar Häberle u. A., Reformen in Strafrecht und Strafvollzug, Stuttgard 1971, citato da Wiesnet, Pena e retribuzione, 123.

[37] Eugen Wiesnet, Pena e retribuzione: “Espiazione dopo la svolta ‘copernicana’” è il titoletto del paragrafo 4, 122; “Fra gli impulsi biblici rilevanti per il nostro tema emerge in particolare l’importanza della legge di assoluta priorità dell’offerta di riconciliazione rivolta al colpevole. Con tale regola ci si riferisce ad una vera e propria ‘svolta copernicana’ dell’espiazione”, 123. “Muovendo dalle già esposte spiegazioni dei concetti di giustizia, pena e conversione, ci si deve attendere che nell’Antico Testamento le caratteristiche dell’espiazione (=kpr)  siano situate in un polo della sua area semantica distante dalla retribuzione”, 67.

[38] La celebrazione viene descritta in Lev 16; 23,27-32; Num 29,7,11. La formula al plurale con l’articolo si trova in Lev 23,27; 23,28; e 25,9. Nei LXX la traduzione greca dei tre testi ha però il singolare ed è senza articolo corrispondente all'ebraico yom kippur. Cfr anche Num 29,11 che parla di sacrificio delle espiazioni (hatta’t ha-kippurîm).

[39] Non esamino il rito del capro espiatorio (Lev 16, 21s.), che non ha rilevanza per la riflessione sull’espiazione legata al sangue. Ad esso invece si sono richiamati i teologi favorevoli alla teoria della sostituzione penale Cfr Léopold Saburin, “Le bouc émissaire, figure du Christ?” in Sciences ecclésiastiques, 11 (1959) 45-79.

[40] Giovanni Deiana, Il giorno dell’espiazione. Il kippur nella tradizione biblica, (Suppl. Rivista Biblica 30) EDB, Bologna 1994, 183. Forse l’osservazione non tiene conto che di per sé il sacrificio per i peccati (hatta’t) valeva per le colpe commesse inavvertitamente (Lev 4). Deiana sostiene che tale limite “è assente nel kippur: tutti i peccati, anche volontari, sono espiati; si richiede solo la conversione interiore: cf. Joma VIII,9” (181 n. 3). Egli però non avverte che la Mishnà, alla quale si richiama, non offre un argomento assoluto perché è stata redatta due secoli dopo Cristo. Anche se raccoglie tradizioni molto antiche non è escluso che alcune volte rifletta sviluppi più recenti del pensiero rabbinico. Cfr. anche Luigi Moraldi, Espiazione sacrificale e riti espiatori nell’ambiente biblico e nell’Antico Testamento, Roma 1956.

[41] Giovanni Deiana, Il giorno dell'espiazione, cit. p.183.

[42] “L’efficacia espiatrice del sangue, tuttavia, non deve essere intesa come una sua intrinseca potenzialità: soltanto il sangue posto sull’altare, ossia quello utilizzato nel culto, acquista valore catartico” Deiana, Il giorno dell’espiazione, 183.

[43] Giovanni Deiana,  Il giorno dell’espiazione, cit. p. 183.

[44] Rinaldo Fabris, La morte di Gesù sacrificio di espiazione? in (Dario Fiorensoli, a cura di), Colpa e sacrificio. Il sacrificio vicario nella storia delle religioni, Il segno dei Gabrielli ed., S. Pietro in Cariano (Vr) 2002, 113.

[45] Giovanni Iammarrone, Salvezza, in Teologia, Dizionari S. Paolo, 2002 p. 1455. Anche se poi per il peso della tradizione aggiunge: “Tuttavia non è errato dire che l’uomo peccatore deve espiare, ovvero anche riparare, il proprio peccato per rientrare in un rapporto di vita con Dio. Nell’accogliere l’iniziativa divina in Cristo che cancella il suo peccato egli deve lasciarsi coinvolgere con la sua libertà nell’evento che lo rinnova e lo salva e quindi deve lasciare che avvenga in lui quel reale processo di rinnovamento che lo muta in profondità nella direzione di Dio. In questa esperienza, faticosa e dolorosa, in comunione con Cristo e sotto l’azione del suo Spirito di santificazione ‘espia’ il suo peccato con le sue conseguenze nel senso che ‘ripara’ il suo peccato ‘portando il peso’ di esso e delle sue conseguenze, redimendolo nell’amore” ib.

[46] CEI, La verità vi farà liberi, Libreria Vaticana 1995 n. 256 p. 133.

[47] Eugen Wiesnet , Pena e retribuzione, 123.

[48] Remo Sandron, Dizionario fondamentale della lingua italiana, De Agostini, Novara 1986 alla voce: soddisfare.

[49] Gisbert Greshake, Soteriologia nella storia della teologia, in Redenzione ed emancipazione, Queriniana, Brescia 1975 p.113.

[50] Soddisfazione in Enciclopedia cattolica 11 (1953) 889.

[51] Bernard Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore, p. 370.

[52] Tertulliano, retore e giurista formato a Roma, è il primo a utilizzare il termine latino nel linguaggio ecclesiale, in ordine alla riconciliazione e alla morte di Cristo. Sulla riconciliazione sacramentale scrive: “Affliggendo la carne e lo spirito, noi soddisfaciamo per il peccato, e, nello stesso tempo, ci premuniamo contro le tentazioni” Trattato sul Battesimo, 20,1;  “Tu l’hai offeso, ma puoi ancora riconciliarti con lui. Hai a che fare uno che accetta una soddisfazione, anzi la desidera” La Penitenza, 7,14. Ancora oggi si parla di “penitenza” o “soddisfazione” come elemento della riconciliazione sacramentale. Spesso è stata intesa come condizione per ricevere il perdono. In realtà è il coinvolgimento personale nel perdono offerto gratuitamente da Dio. L’azione divina, infatti, quando è accolta fiorisce come atto libero dell’uomo.

[53] Tertulliano scrive che Cristo ha soddisfatto la legge soggiacendo alla morte e scendendo agli inferi “hic quoque legi satisfecit, forma humanae mortis apud inferos functus” (De anima, 55 PL 2, 742). Anche S. Ilario utilizza questa categoria parlando della passione “volontariamente assunta per soddisfare ad un ufficio penale” (Tractatus in Psalmos, 54,12, PL 9,344). S. Ambrogio, per primo usa il termine in ordine a Dio. Riferendosi ai Salmi 38, 20 (essi mi odiano ingiustamente) e 69, 5 (essi mi odiano senza motivo), scrive: “Alcuni pensano che questi due salmi parlino della persona di Cristo, che soddisfaceva il Padre per i nostri peccati” (In Ps 37 enarratio, 53, PL 14,1036 c); “Gesù ha assunto la morte perché si compia la sentenza, perché venga data soddisfazione al giudizio di condanna: la maledizione della carne peccatrice fino alla morte” (De fuga saeculi, 7, 44 PL 14, 589d). La liturgia mozarabica introduce il termine in alcune preghiere (Liber mozarabicus sacramentorum 13 e 64 ed. Marius Férotin, Paris 1912, 55 e 237). Per S. Pier Damiani la croce di Cristo “ha soddisfatto il debito della nostra condanna, che era impossibile estinguere” (Sermo 48, PL 144, 766). Bernard Sesboüé scrive: “nelle liturgie antiche il termine soddisfazione è utilizzato a proposito dell’intercessione dei santi e anche, qua e là a proposito dello stesso sacrificio eucaristico”. A conferma cita questa preghiera dalla liturgia mozarabica: “Ti offriamo, Padre sovrano, questa [ostia immacolata] per la tua santa chiesa, per la soddisfazione del mondo peccatore, per la purificazione delle anime, per la guarigione di tutti gli infermi, per il riposo e l’indulgenza in favore dei fedeli defunti”, Gesù Cristo l’unico mediatore, 371. Cfr. anche Jacques Galot, Gesù liberatore, 213.

[54] Hans Kessler, Redenzione/Soteriologia, in Enciclopedia Teologica, Queriniana, Brescia 1989 p. 831.

[55] S. Anselmi Cantuariensis Arch., Cur Deus homo, in Opera omnia, Stuttgard-Camstatt 1968, 21984 v. 2, 37-133; J. P. Migne, PL 158, 359C-432B; traduzione italiana (Cumer D.) Perché un Dio uomo, Paoline, Alba 1966. Negli ultimi decenni del secolo XX si è avuta una notevole fioritura di studi relativi alle opere di S. Anselmo di Aosta.  Cfr. Mario Serenthà, “La discussione più recente sulla teoria anselmiana”, in Scuola cattolica 108 (1980) 344-393; Nicola Albanesi, La letteratura critica anselmiana del XX secolo, in Id. Cur Deus homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo, arcivescovo di Canterbury, PUG, Roma 2002, 15-80; e l’ampia bibliografia in Roberto Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo di Aosta, Lateran University Press, (Corona Lateranensis 17) Roma 2003, 319-396.

[56] S. Anselmo Cur Deus homo, I,13; Cumer, 109.

[57] S. Anselmo Cur Deus homo, I,11; Cumer, 104-105.

[58] S. Anselmo Cur Deus homo, I,11; Cumer, 104-105.

[59] S. Anselmo Cur Deus homo,  I,13; Cumer, 111.

[60] S. Anselmo Cur Deus homo, I, 15; Cumer 115. S. Anselmo ragiona in termini di giustizia e di compenso proporzionato. Per cui non sembra richiamarsi al concetto del diritto romano quanto piuttosto al diritto germanico o come alcuni pensano, a formule liturgiche. Pietro Parente, ad es. dell’argomentazione anselmiana scrive: “Come si vede è uno schema dialetticamente serrato, che s’impone per se stesso. Ma bisogna dire che vi gioca troppo la giustizia col suo linguaggio giuridico come se l’Incarnazione e la Redenzione non fossero soprattutto opera della misericordia e dell’amore di Dio... Il termine satisfactio era già usato nel diritto canonico per indicare la pena legale di un delitto, e nel diritto germanico (Wergeld) per significare un compenso per l’offesa fatta. Ma più che da queste fonti S. Anselmo lo ha attinto probabilmente dalla liturgia (specialmente dalla mozarabica), dove era usato da tempo a indicare le opere meritorie e le inter­cessioni dei Santi a favore dei peccatori” Teologia di Cristo, 1°, Città Nuova, Roma 1970, 564.

[61] S. Anselmo Cur Deus homo,  I, 24; Cumer, 151.

[62] S. Anselmo Cur Deus homo, “tu non soddisfi finché non dai una cosa più grande di quella per cui non avresti dovuto commettere peccato” I, 21, Cumer, 144; “Il debito era così grande che per soddisfarlo, essendo obbligato solo l’uomo, ma potendolo solo Dio, occorreva che quell’uomo fosse pure Dio” II, 6, Cumer , 219-220.

[63] Non è questo il luogo per riassumere l’influenza della teoria anselmiana nella teologia cristiana e gli esiti spesso deleteri nei secoli moderni. Cf. Gustaf Aulén, Christus Victor. An historical Study of the three main Types of the Atonement, London 21975; Philippe De La Trinité, La Rédemption par le sang, Paris 1959, 18-23; Jean Planieux, Heil und Heiland. Dogmengeschichtliche Texte und Studien Paris 1969, 71 ss.; Jean Rivière, Rédemption, in DTCh 13 (1939) 1942-1957; Jean Rivière, Le dogme de la Rédemption dans la thèologie contemporaine, Albi 1948, 356-380; Léopold Sabourin, Rédemption sacrificielle. Une enquête exégétique, Montreal 1961, pp. 109-153; Bernard Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore: un lugubre florilegio, pp. 74-92; su S. Anselmo, pp. 371-390.

[64] Franz Lakner osserva che alla fine del sec. XIX “la dottrina della redenzione nei manuali fu trattata quasi esclusivamente sotto l’aspetto del modus satisfactionis (ad esempio M.G. Van North, L Billot, Ch Pesch; anzi nel Concilio Vaticano I v’era uno schema ampliamente elaborato sulla dottrina della soddisfazione, che non poté più venir discusso per lo scioglimento anticipato del Concilio”, Soddisfazione in Sacramentum Mundi, 7 (1977) 720. Egli poi elenca le diverse teorie sviluppate nel sec. XX. a) l’antica e classica teoria della pena (poi ripresa dai protestanti), che pone tanto in primo piano l’espiazione della pena e della sofferenza da soffocare l’elemento della soddisfazione vera e propria… b) la teoria dell’espiazione  (Ch Pech, d’Alés) sostituisce l’elemento vendicativo dell’espiazione della pena con la volontaria assunzione del dolore in obbedienza e amore… c) la teoria della soddisfazione, che oggi si affermata sulle altre teorie, viene presentata in due forme; a entrambe è comune il significato dell’elemento morale del risarcire… L’elemento espiatorio passa in secondo piano e diventa o un elemento essenziale di rango secondario (P. Galtier, J. Solano) o un elemento non essenziale, per quanto necessario dell’opera della redenzione (J. Rivière, E. Hugon, A.-D Sertillanges, L. Richard)”, p. 721. Una descrizione più dettagliata del cammino compiuto dalla teologia nella prima metà del secolo XX si trova in Giulio Oggioni, Il mistero della redenzione, in Problemi e orientamenti di Teologia dogmatica, Marzorati, Milano 2 voll.,  II, 237-343 soprattutto 314-323.

[65] “Se nessun libro ha tanto influito sulla dottrina della redenzione in Occidente come il Cur Deus homo.. di sant'Anselmo, nessun teologo della tradizione è oggi più segno di contraddizione al pari di lui" Bernard Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore, 371. Cfr. gli scritti citati nella nota 44. Vedi ad esempio la difesa di S. Anselmo in Nicola Albanesi, La letteratura critica anselmiana del XX secolo, in Id.  Cur Deus homo: la logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmo, arcivescovo di Canterbury, PUG, Roma 2002; e Roberto Nardin, Il Cur Deus homo di Anselmo di Aosta, Lateran University Press, (Corona Lateranensis 17) Roma 2003.

[66] Bernard Sesboüé, Gesù Cristo l’unico mediatore, pp. 384-385.

[67] S. Anselmo Cur Deus homo, I, 24, Cumer , 152-153; Cf. I,13 Cumer, 111: “È dunque necessario che sia restituito l’onore tolto, o venga inflitta la pena. Altrimenti o Dio sarebbe ingiusto con se stesso, oppure sarebbe incapace di entrambe le soluzioni: ma è una empietà solo il pensarlo”.

[68] Anche Tommaso d’Aquino, che pure ha temperato l’eccessivo giuridismo della teologia precedente, rimane nella stessa direzione: “Cristo, soffrendo per amore e per obbedienza, ha offerto a Dio più di quanto esigeva la riparazione dell’offesa di tutto il genere umano”  III STh q.48. a. 2.

[69]  Sesboüé si chiede: “perché il Cur Deus homo ha dato luogo a interpretazioni correnti, che deformano gravemente l’immagine di Dio e provocano le reazioni e i processi che abbiamo visto? Non vi sono per caso nella stessa opera alcune ambiguità, che hanno dato adito a questa interpretazione tradizionale, che è andata appesantendosi lungo i secoli e ha elaborato una dottrina basata su controsensi oggettivi?, Gesù Cristo l’unico mediatore, 385. Egli cita poi Michel Corbin il quale riconosce che il testo anselmiano è ambiguo al punto da permettere sia una lettura perversa che una lettura corretta. Introduzione all’edizione di Sources Chrétiennes, Les Éditions du Cerf, Paris 1988, 71.

[70] Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Vaticana n. 616.

[71] CEI, La verità vi farà liberi, Libreria Vaticana 1995, n. 257.

[72] Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I, q. 104,art 1 ad 4.

[73] Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ n. 80.

[74] Roberto Mancini,  Il senso della misericordia, Romena, Pratovecchio 2016, p. 49.                                    

[75] Id. p. 51 riassume lo sviluppo del capitolo 4° pp.51- 64 intitolato: Nel regime sacrificale

[76] Id, ivi p. 34.

[77] Id ivi p. 29.

[78] Id ivi p. 29.