Il firmamento incantato interroga il senso cosmico dell'umanità nascente

Marco Castellani

Il firmamento incantato interroga il senso cosmico dell’umanità nascente

Marco Castellani

 

Membro dell’INAF - Osservatorio astronomico di Roma

 

Introduzione

Sono tempi di transizione, tempi di rapida trasformazione di costumi e linguaggi. Anche la telematica, spinta dalla crisi pandemica, ci introduce quasi di prepotenza nel suo specifico linguaggio, nel suo modo di comunicare e di connetterci. Tutto cambia, in tempi rapidissimi. Cambiano le modalità di rapporto con i nostri simili, con il mondo. Sarebbe ingenuo pensare che il rapporto con il cosmo rimanga immutato, non risenta esso stesso della particolare traiettoria umana, così sfidata dalla crisi sanitaria.

Specificamente, quali nuovi protocolli ci consentono adesso di interrogare ancora il cielo, ricevendone un flusso di informazioni intellegibili? Che specifico orecchio dobbiamo allenare, per cogliere le frequenze della sua musica attuale?

Già queste domande ci appaiono nuove. Difatti, solo recentemente abbiamo compreso come il cielo ci parli in un ampio spettro di linguaggi. Ognuno significativo, ognuno che veicola uno specifico insieme di informazioni. Ricostituire il quadro completo e - prima ancora - convivere con questa inedita complessità, è un compito relativamente nuovo per lo scienziato. Un lavoro, diremmo, di carità fondamentale, orientato a riconsegnare alla più vasta comunità dei fratelli un quadro organico e ordinato, in cui l’abbondanza del dato sia filtrata ad un setaccio realmente umano, devoto all’impresa di rintracciare un senso compiuto[1] in tale ingente mole di dati.

Abbiamo assistito negli ultimi anni ad una importante evoluzione di linguaggio, per quanto riguarda l’indagine degli oggetti celesti. Siamo infatti transiti dall’astronomia puramente “ottica” a quella cosiddetta “multi messaggero”. Questo corrisponde realmente ad un irreversibile cambio di paradigma, segno anche esso di quell’era nuova che stiamo già tentando di inquadrare correttamente[2].

         La “vecchia” astronomia, che tutti conosciamo bene, ci parla di un universo indagabile essenzialmente con l’occhio umano e le sue ben note estensioni, costituite in primo luogo dai telescopi: in ultima analisi, un telescopio è infatti appena un modo per raccogliere più fotoni, portando dunque alla visione oggetti celesti la cui emissione luminosa è troppo debole per essere rilevata ad occhio nudo. In questo paradigma, l’universo è ultimamente concepito come un puro contenitore di eventi, uno scenario in sé completamente inerte, senza alcuna possibilità di interazione o partecipazione con ciò che accade al suo interno.

         La “nuova” astronomia non contraddice frontalmente tale paradigma ma innesta in esso una potente carica rivoluzionaria, che lo estende e lo rigenera in profondità, in modo per noi totalmente inedito. Il nuovo paradigma - frutto congiunto delle conquiste scientifiche e filosofiche dell’ultimo secolo - porta con sé una visione di universo molto più complessa ed articolata, che sfida le antiche convinzioni e i nostri più collaudati modelli mentali. Secondo questo orizzonte percettivo, i corpi celesti ci inviano una serie di informazioni in un ampio ventaglio di differenti modalità (delle quali la luce è appena un aspetto tra i tanti), per intendere ognuna delle quali ci è appunto richiesta la coltivazione di una specifica capacità di ascolto.

          Poiché la radiazione elettromagnetica, le onde gravitazionali, i neutrini ed i raggi cosmici (tanto per accennare ad alcuni esempi) sono generati da processi astrofisici differenti, essi ci consentono di rivelare informazioni diverse riguardo alle loro sorgenti. Ogni specifico segnale ha necessità, per essere recepito, di una strumentazione particolare, la quale si spinge ben oltre la semplice raccolta di fotoni. Schiere di radiotelescopi che lavorano in strettissima sincronia, rivelatori di neutrini dislocati sotto le più alte montagne, apparati complicatissimi per catturare le elusive onde gravitazionali, posti a migliaia di chilometri di distanza ma in strettissima connessione temporale, al fine di esplorare concordanze di segnale: sono appena esempi di questo nuovo approccio che dispiega pienamente la complessità linguistica del “nuovo cosmo”.

          Esso stesso non si propone più come un ambiente “statico” ma - riposando sullo scenario della relatività generale - ci si rivela come profondamente connesso con quanto accade al suo interno. Le masse, ci avverte Einstein, piegano lo spazio, pertanto il tessuto dello spazio-tempo si modifica in ogni punto in funzione di ciò che è ivi presente. Più che uno scenario asettico, esso si disvela dunque come un ambiente morbido e intimamente connesso con quanto contiene, partecipando esso stesso al gioco e rendendo sbiadita e incerta la classica distinzione tra contenitore e contenuto. In questo senso le stesse onde gravitazionali possono essere pensate come fluttuazioni del cosmo che ci raggiungono da regioni remotissime, portandoci informazioni riguardo a processi di incommensurabile energia (come la fusione di due buchi neri) che altrimenti ci sarebbero del tutto precluse.

Preparativi di uscita dal disincanto

Abbiamo una necessità vitale di formulare un nuovo messaggio, che ci porti definitivamente fuori dalle secche di quella stagione del disincanto che il positivismo ottocentesco aveva introdotto nelle nostre menti e nei nostri cuori, così potente che i suoi effetti perdurano, lavorano in background rischiando di sbiadire il nostro vivere quotidiano, di sottrarne via gusto e sapore. La visione positivista sul cosmo ha delle coordinate specifiche, e per quanto ci appaia talvolta inevitabile è invece - come tutte le visioni - frutto di una scelta precisa, anche se spesso inconsapevole. Come scrivono Leonardo Boff e Mark Hatawey,

“Abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”.[3]

L’idea di viaggiare sperduti entro un cosmo gelidamente indifferente, non è in alcun modo una una evidenza scientifica. Ad una più attenta analisi, si rivela essere appena una opzione culturale, frutto conseguente di un orizzonte di pensiero ormai datato, di una cattiva filosofia (ovvero una filosofia senza veri fondamenti) della quale vale certamente la pena evidenziarne, almeno, i limiti più palesi.

Appare significativa in questo contesto una celebre frase del matematico ed astronomo ottocentesco Simon Newcomb:

“Probabilmente ci stiamo avvicinando al limite di tutto ciò che è possibile conoscere sull’astronomia”.

Fin troppo facile annotare come la implicita sicumera nascosta dentro questa frase sia stata fatta esplodere dall’avvento della nuova fisica, appena pochi decenni più avanti. Teoria della relatività e meccanica quantistica sono quelle rivoluzioni che avrebbero, di lì a poco, frantumato un sistema di pensiero che soltanto una certa inerzia mentale poteva assecondare nella sua conclamata stazionarietà.

Quel che ci preme non è tanto smentire tale previsione, magari inserendone un’altra che però non cambi il livello di pensiero, non ne innalzi la frequenza. Vogliamo invece notare come una simile apodittica conclusione segni esattamente l’apice del modo antico di pensare l’astronomia, e proprio la sua clamorosa smentita - ormai diremmo anche reiterata - marchi la necessità di quel pensiero nuovo di cui ci stiamo occupando in questa sede.     Dal vecchio pensiero ci si libera non tanto per successive approssimazioni, ma con il coraggio di una vera e propria conversione ad U, per imboccare finalmente una diversa via.

         Quel che ci serve è individuare una modalità di evasione dal disincanto, credibile e praticabile. Soprattutto adesso, nell’emergenza pandemica da cui solo ora coltiviamo la concreta speranza di uscire, dove l’auspicio di vivere sempre intensamente il reale raccomandato anni fa da Luigi Giussani ai suoi ragazzi rischia piuttosto di trovarci increduli e scettici, pieni di obiezioni, congelati in un universo stazionario, bloccati nel nostro ambito ristretto e virtuale, relegati nelle nostre piccole cosmologie, irrelate l’una all’altra. Una sfida certamente da cogliere a vari livelli[4], che qui però intendiamo dettagliare in ambito più specificamente astronomico.

        La panoplia di sorprese in cui lo studio del cielo ci ha tuffato, ci porta direttamente dentro il pensiero moderno del cosmo. Non più una serie di ingranaggi, un puro gioco di rapporti meccanici la cui riduzione in termini di forze concomitanti esaurisce definitivamente ogni meraviglia. Piuttosto, un campo di eventi in cui il fattore sorpresa rientra come vero protagonista della scena, regalando un fascino nuovo ad una indagine che riposa su una curiosità antichissima: quella di sapere in cosa siamo immersi, ovvero di cogliere il quadro ultimo all’interno del quale si svolgono le nostre esistenze.

In questo senso, la metafora dello spazio vuoto è quanto mai significativa del cambio di paradigma. Mentre per la vecchia fisica lo spazio vuoto è un ambiente tridimensionale privo di oggetti (oggi potremmo dire, in termini più moderni, descrivibile con un minimo di elementi di informazione), nel nuovo linguaggio tale spazio è un luogo multidimensionale di infinita complessità, dove particelle ed antiparticelle di ogni tipo si generano e si annichilano mutuamente su scale temporali così piccole da sfuggire ad ogni osservazione. Ovvero, un luogo dove si dispiegano incessantemente infinite potenzialità creative.

         Da un punto di vista più squisitamente osservativo, è il fascino stesso del cosmo che ci viene riverberato, ad un livello nuovo, dalle immagini che strumenti come l’Hubble Space Telescope (che ha appena festeggiato il suo trentunesimo anni di attività[5]) ci portano ormai quotidianamente alla visione[6]. L’universo esplorato da Hubble è un universo densissimo di meraviglia, segno eclatante di una capacità di vedere che supera ogni buio apparente e ci mostra degli autentici tesori, gioielli che la notte non copre ma appena incastona in modo che brillino - se possibile - ancora di più.

Ed è un universo che si apre anche a svelarci i suoi segreti, nella misura in cui procediamo nella conoscenza con questo nuovo approccio, consapevoli della meraviglia che ci attende, capace di sollevare - almeno per un momento - il velo del nostro usuale scetticismo. La sonda Gaia, un progetto dell’Agenzia Spaziale Europea che è in opera dal 2013, sta conducendo un censimento senza precedenti della nostra Via Lattea, inviandoci dati riguardanti miliardi di stelle. Non appena la luminosità ma, come la nuova astronomia propone, informazioni essenziali come i moti relativi e le forme spettrali, per giungere ad una conoscenza profonda dei variegati ambienti della Galassia. Pochi mesi fa è stata aperta al pubblico la versione preliminare della terza release del catalogo generale (EDR3), aprendoci ad una visione del cosmo intorno a noi incredibilmente precisa e dettagliata, davvero senza precedenti.

Quanto brevemente accennato (e molto altro) congiura felicemente per portarci fuori dal disincanto mentre ci invita ad abbracciare una nuova idea di universo, come un bene comune, una proposta concreta e credibile per allargare lo sguardo. E per insegnare ai nostri fratelli uomini, ai nostri figli, a fare altrettanto.

Nonostante l’abitudine a considerare il cielo stellato come “statico”, in realtà le stelle sono in costante movimento. All’occhio umano questo è impercettibile, ma il satellite Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea, riesce a misurare questi moti con grande precisione. L’immagine ci mostra come 40.000 stelle - tutte entro 100 parsec da noi (ovvero 326 anni luce) - si muoveranno nei prossimi quattrocentomila anni. Questi “moti propri” (per usare il corretto termine astronomico) sono un dato essenziale della nuova versione del catalogo stellare di Gaia (pubblicamente accessibile), denominato EDR3. (Crediti: ESA)

Un universo in (perenne) costruzione

Lungi dunque dal tedio di un già dato una volta per tutte, l’universo contemporaneo ci stupisce ogni giorno di più, perché ogni giorno - potremmo dire - ci regala una sorpresa[7]. Guardando rapidamente agli ultimi anni, infatti, scorgiamo traccia precisa di questo flusso di scoperte, alcune realmente decisive al fine di modificare il nostro assetto mentale.

       Se nel 2016 è avvenuta la storica rilevazione delle onde gravitazionali, l’anno seguente la NASA ha scoperto un sistema planetario simile (anche se in scala) al nostro Sistema Solare, che si trova intorno alla stella Trappist-1. Il 2018 è stato l’anno della scoperta dell’acqua liquida sotto la superficie di Marte, mentre l’anno successivo è stato segnato da un altro evento storico, la prima fotografia degli intorni di un buco nero (il sistema M87). Nel settembre 2020, la notizia della rilevazione di tracce di fosfina nell’atmosfera di Venere ha indotto molti ricercatori ad ipotizzare che in quell’ambiente vi sia vita microbica (ci torneremo più avanti), e ha scosso ed emozionato la tarda estate di una Italia ancora incerta tra la fatica del distanziamento sociale e la speranza di una definitiva uscita dalla crisi pandemica. L’anno ancora in corso ha già visto degli eventi di grande rilevanza, anche mediatica, come l’atterraggio preciso di Perserverance sul suolo marziano e, ancor più di recente, il successo dei primi voli guidati del piccolo elicottero Ingenuity, che Perseverance ha portato con sé.

      Con buona pace di ogni schematismo pigro, mai come adesso l’astronomia è stata feconda di scoperte, e l’eventualità di arrivare ad uno stato di conoscenza completa è, allo stesso tempo, tramontata all’orizzonte ottico di ogni appassionato indagatore del cielo. Ogni scoperta - ora lo sappiamo - rilancia nuovi quesiti, così che per ogni cosa che si comprende, sorgono mille altre domande. Il quadro al quale stiamo giungendo non è quello di una rappresentazione statica della verità: ci apriamo invece ad una sorta di mosaico multidimensionale, in cui ogni tessera che sembra porsi a dimora apre a nuovi percorsi, stimola nuove domande. Rilancia il gioco, in una variopinta complessità, che pare davvero non conoscere limiti.

Elaborazione artistica del piccolo elicottero chiamato Ingenuity e del rover Perseverance (NASA). Ingenuity è il primo “drone” ad effettuare sorvoli di un altro pianeta, e il pieno successo dei primi voli guidati apre ora la strada ad una serie di interessanti prospettive, incluse successive esplorazioni di altre lune e pianeti, in future missioni. Perseverance (che trasportava anche Ingenuity) è arrivato su Marte il 18 febbraio del 2021, con una complessa procedura di appoggio che ha avuto pieno successo ed è stata seguita dai media del mondo intero. 

     Lo strano caso dei batteri galleggianti

     In questo ribollire di eventi, non sorprende troppo che si susseguano scoperte importanti che rilanciano a nuovi livelli la possibilità, sempre più robusta nella sua articolazione, che vi sia vita extraterrestre, dentro o fuori il Sistema Solare. Mentre leggete queste pagine, la sonda Perseverance è al lavoro per comprendere se Marte possa essere stato un pianeta vivo nel suo passato, come molti indizi portano a pensare.

     Forse però ciò che ha fatto più clamore nei tempi recenti è stata la rilevazione, già accennata, di fosfina nell’atmosfera del pianeta Venere. Vediamo di ripercorrere brevemente i fatti, perché in essi vi possiamo scorgere anche più di una utile lezione sul procedere della scienza moderna.

     Il giorno 14 settembre del 2020 viene emesso un comunicato stampa da parte dell’European Southern Observatory (ESO)[8] dove si parla del riscontro di una possibile indicazione di presenza di vita batterica negli strati della spessa atmosfera di Venere. La scoperta è stata estremamente complessa e ha richiesto l’utilizzo di una schiera di ben 45 antenne afferenti al progetto ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), in Cile. La notizia è parzialmente anticipata da alcuni media e da siti specializzati, che lasciano filtrare alcune indiscrezioni: grazie anche al clima di attesa che in tal modo si crea nel pubblico più vasto, ottiene una grande risonanza. Il nostro mondo sta appunto uscendo dall’estate di un anno molto difficile (a motivo dell’emergenza sanitaria) con la speranza che il peggio sia ormai alle spalle. Ha voglia di sognare, di ritrovarsi dentro un universo aperto e ricco di sorprese, dopo tanta sofferenza fisica e psicologica. Quest’ultima, aggiungiamo, alimentata anche dai media, che mantengono l’argomento coronavirus sempre alto tra le nostre preoccupazioni, secondo alcuni osservatori[9], anche al di là della giusta e doverosa informazione.

La proclamata scoperta genera un entusiasmo che, per qualche giorno, spezza salubremente il discorrere monotematico dei media, che più che mai ci ha stretto in questo periodo. Confermandoci così che l’avventura scientifica è quanto mai un’impresa umana: non vive in un mondo imperturbabile ed asettico, ma si contamina delle speranze e dei sogni tipici dell’uomo di ogni epoca, arricchendo il suo percorso in modo insostituibile.

Impatto mediatico a parte, appare utile porre le cose nel giusto contesto, dal punto di vista scientifico. Venere è il secondo pianeta in ordine di distanza dal Sole, venendo subito dopo Mercurio. A motivo della notevole vicinanza alla nostra stella, le temperature al suolo sono molto elevate. L’esplorazione del pianeta condotta dall’uomo sarebbe di per sé un tema interessante, e contempla le missioni Venera 13 e Venera 14, inviate dai sovietici negli anni ottante dello scorso secolo. Le due sonde toccano la rovente superficie di Venere nel marzo del 1982. Resisteranno ben poco, ma riescono ugualmente ad inviare preziosi dati a Terra. Il lander della Venera 13 rimane attivo per ben 127 minuti, mentre quello di Venera 14 per 57 minuti. Non è poco, perché il tempo di vita dei lander, in tali condizioni estreme, era stata valutata dai tecnici in appena 32 minuti.

I lander trasmettono con successo diversi dati alle rispettive sonde madri, in orbita intorno al pianeta, che a loro volta li inviano verso Terra. Appare ben presto confermato, dall’analisi di queste preziose informazioni, che la possibilità di riscontrare vita sulla superficie del pianeta, è praticamente nulla. Si tratta di una superficie davvero rovente, con temperature che sfiorano i 500 gradi centigradi.

Tuttavia vi è un altro ambiente di Venere, che potrebbe riservare delle sorprese, in questo senso: la sua atmosfera. Tale atmosfera è incredibilmente densa, e composta soprattutto da anidride carbonica.

L’indagine in questione svela la rilevazione di fosfina nell’atmosfera del pianeta. Questa molecola è chiamata anche idruro di fosforo, un composto chimico la cui formula bruta è PH3 . La sua importanza ai fini delle indagini sulla vita extraterrestre, è tutta racchiusa nel fatto che viene reputata un eccellente marcatore biologico, perché può essere prodotta soltanto da batteri anaerobici (ovvero, batteri che vivono anche in assenza di ossigeno), oltre che da complessi impianti industriali (dei quali però, come ben sappiamo, non v’è alcuna traccia su Venere).

La rilevazione di fosfina nell’atmosfera del pianeta sembra dare linfa ad uno scenario di grande interesse, per le scienze della vita. Si trova “nel punto giusto” perché si può agevolmente collegare alla storia evolutiva di Venere. Secondo il modello sviluppato dagli scienziati, le molecole sono trasportate dalle nubi spinte dal vento di Venere ad altitudini comprese tra 55 e 80 km e assorbono parte delle onde millimetriche prodotte ad altitudini inferiori. Tutto fa pensare all’ipotesi che “in quota” si sia costituito un ecosistema molto favorevole per lo sviluppo di quella vita, che risulta impossibile in superficie. Questi ipotetici batteri si troverebbero, in pratica, a “galleggiare” sopra i densi strati atmosferici, rendendo con la loro presenza l’atmosfera del pianeta inaspettatamente viva.

       Ma l’idea non è completamente nuova. Giù negli anni sessanta un astronomo e divulgatore del calibro di Carl Sagan, insieme al collega Harold Morowitz, aveva pubblicato un articolo sulla celebre rivista scientifica Nature[10] ove si ipotizzava (senza ancora poterlo dimostrare) proprio la presenza di vita nelle nuvole di Venere. Già il sommario di tale articolo risultava estremamente significativo, in tal senso:

      Mentre le condizioni di superficie di Venere rendono l’ipotesi della vita non plausibile in tal luogo, le nubi di Venere risultano parte di una storia del tutto diversa...

        Sembra davvero si sia giunti al primo limpido indizio della presenza di vita extraterrestre (sia pure a livello di batteri). Tuttavia già in ottobre uno studio indipendente condotto da altri scienziati[11], fin già dall’eloquente titolo, si innesta a smentire clamorosamente i primi risultati ottenuti: “Niente fosfina nell’atmosfera di Venere”. Gli autori di questo nuovo lavoro sostengono che una più accurata analisi condotta sui medesimi dati della prima equipe, non fornisce alcuna evidenza della presenza di fosfina. Altri studi si immettono ben presto su tale scia[12] rendendo, nel complesso, incerta e opaca la scoperta, in origine così emozionante. E lasciando tanto gli scienziati quanto il pubblico più vasto, nella perplessità e nella confusione.

       Ad oggi, il caso rimane controverso, e una parola “definitiva” (se mai questo termine possa essere lecito nell’ambito della scienza, che è provvisoria e perfettibile per sua stessa natura), potrà probabilmente essere pronunciata soltanto quando potremo fare rilevazioni in situ. Sarà forse un’altra sonda russa, la Venera-D (il cui volo è attualmente previsto per il 2029) ad effettuare delle rilevazioni dirimenti nell’atmosfera di Venere, per comprendere se la fosfina è veramente presente. Una eventuale conferma del dato si tradurrebbe automaticamente nella fortissima indicazione per la presenza di vita nelle nubi del pianeta Venere, aprendo una nuova era nel nostro modo in cui guardiamo lo spazio. Ma anche senza fosfina in atmosfera, non potremo che partecipare con rinnovato entusiasmo alla ricerca della vita fuori dalla Terra, capace di generare nuove sorprese e di capovolgere, con un solo riscontro positivo, il nostro assetto mentale in modo permanente.

Nuvole nell'atmosfera di Venere, rivelate dall'osservazione ai raggi ultravioletti  da parte della  missione Pioneer Venus della NASA (1979). Proprio l’atmosfera del pianeta, secondo recenti studi, potrebbe ospitare vita in forma batterica. La rilevazione è tuttavia controversa e probabilmente la parola definitiva potrà arrivare quando una sonda inviata da Terra potrà permetterci di effettuare rilevamenti “in loco”. L’indagine sulla possibilità di vita extraterrestre è un filone importante dell’indagine astronomica contemporanea.

Una questione di complessità e fiducia

Come è mai potuto accadere che una notizia data con grande enfasi da un gruppo di ricerca, venga recisamente smentita da altri ricercatori, a pochissimi giorni di distanza? Non è proprio la scienza quella disciplina deputata a fornirci solidi punti di aggancio in questo universo poliedrico ed in continua mutazione? Chi non è addentro alle dinamiche della moderna analisi scientifica, rischia indubbiamente di rimanere disorientato.

Certo, c’è sempre da considerare il fattore umano: in diversi casi le rivalità tra differenti gruppi di lavoro trascendono il fair play e passano anche attraverso l’alterno destino di questi eclatanti annunci. Ma sarebbe decisamente riduttivo rimanere soltanto entro questa visione. Un tema decisamente più profondo riposa nella sempre maggior complessità dell’approccio empirico e sperimentale verso il mondo fisico. Riallacciandoci a quanto scrivevamo proprio in apertura del saggio, ciò a sua volta giunge come inevitabile sottoprodotto del raffinamento progressivo delle metodologie di indagine.

Il linguaggio dell’universo si è fatto sempre più raffinato, in corrispondenza puntuale al nostro stesso percorso evolutivo. L’universo ci parla ormai attraverso un linguaggio sottile che per essere colto e interpretato necessita di apparati strumentali sempre più elaborati e complessi, e procedura di decifrazione via via più elaborate e - di conseguenza - prone ad errori. Così soltanto possiamo recepire le informazioni che mondi lontanissimi[13] ci comunicano.

In questo senso, se osservare le stelle ad occhio nudo classificandone la luminosità in sei categorie, come facevano gli antichi[14], si presta al massimo ad una certa imprecisione e soggettività, decifrare un segnale lieve come quello dal quale si deduce - attraverso una articolata scala di passaggi - la presenza di fosfina nell’atmosfera di un altro pianeta, richiede uno strato aggiuntivo di complessità (strumentale e di successiva interpretazione) per il quale è facile essere indotti in errore.

      Questo non ci deve scoraggiare, ma solamente indurci a quell’atteggiamento di umiltà e prudenza che è da sempre l’attitudine più propria della vera scienza, quella che più di ogni altra consente di recepire i messaggi del cosmo e proseguire fruttuosamente nell’avventura di scoperta. Ricordandoci, peraltro, che non è compito della scienza fornirci verità assolute, ma solo aprire la nostra mente ad un percorso di crescita.

        Possiamo avere fiducia, nonostante tutto: l’universo parla un linguaggio che noi possiamo intendere. Ciò non è scontato ma è fonte di perenne meraviglia, per lo scienziato. Non brancoliamo nel buio: al contrario, ci è data una strada per la quale possiamo arricchire volta per volta la nostra conoscenza del cosmo, raffinando i nostri modelli interpretativi, temperandoli al fuoco risanante di osservazioni via via più accurate. Una strada per intendere ed interpretare il messaggio sottile che ci arriva dalle stelle.

       Sognare alla grande

       A prescindere da come si risolverà il “caso della fosfina”, possiamo certamente affermare che negli ultimi anni stiamo assistendo ad una progressiva riformulazione della nostra idea di universo, come frutto delle più recenti scoperte scientifiche. E questa va esattamente nella direzione di un universo meno inospitale di quanto si credeva un tempo, dove si riscontrano sempre più ambienti interessanti in cui indagare la possibile presenza di vita (presente o passata). La ricerca di pianeti extrasolari (i cosiddetti esopianeti) è un campo oggi in fortissima espansione e sta producendo risultati realmente interessanti[15]. Anche in questo campo specifico, la scienza prosegue nella sua opera di bonifica mentale per la quale all’uomo non è più garantita una facile forma di centralità nel cosmo, ma si deve confrontare con il fatto che possono esistere una grande quantità di ambienti planetari ove le condizioni superficiali possono essere simili alla Terra: di fatto, pienamente compatibili con la vita.

        Prima ancora di ogni eclatante annuncio, è il segnale di un cosmo ospitale quello che ci giunge adesso, come elemento davvero caratteristico dei tempi moderni. Se pensiamo all’evoluzione della conoscenza del cosmo come uno stimolo allo stesso ampliarsi di orizzonti del pensiero umano - come peraltro è sempre stato - non sembrerà azzardato ipotizzare che questo nuovo segnale potrebbe essere in qualche modo preparatorio a qualche grossa sorpresa nell’ambito della vita stessa, che il progresso nell’indagine scientifica rende in qualche modo sempre più digeribile (come il caso dell’indagine sull’atmosfera di Venere testimonia appieno).

Non va tuttavia dimenticato che ogni trattazione che si occupi del firmamento incantato non può comunque prescindere dal solo luogo dove, al momento in cui scriviamo, si è certi che esista vita, ovvero la nostra Terra. Il già citato Carl Sagan scriveva, negli anni Novanta del secolo scorso, che

“La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido puntino blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto.”

Queste considerazioni sono giustamente divenute storiche, insieme alla specifica contingenza in cui furono espresse. Esse accompagnavano l’immagine acquisita dalla sonda Voyager 1 quando, poco prima di spegnere la camera fotografica, fu direzionata verso la Terra, un piccolo pianeta allora distante già sei miliardi di chilometri. Fu proprio Sagan che chiese alla NASA di acquisire questa foto da una posizione che probabilmente non sarà raggiunta di nuovo che tra moltissimi anni: ovvero, dai confini stessi del Sistema Solare. Di lì a poco l’occhio di Voyager sarebbe stato disattivato: una scelta difficile ma necessaria, motivata dalla ridotta quantità di energia disponibile sulla sonda (già abbondantemente spintasi oltre la durata nominale della missione).

La sonda Voyager 1 (come pure la sua gemella, la Voyager 2) si considerano ormai al di fuori del Sistema Solare, e proseguono la loro incredibile ed unica avventura, nel frattempo divenuta realmente interstellare. La cosa straordinaria è che riusciamo non solo a mantenere ancora i contatti con le sonde (e sarà così ancora per qualche anno, secondo la previsione dei tecnici) ma riceviamo tuttora dati scientifici preziosissimi riguardo l’ambiente in cui le sonde si trovano. Informazioni che non avremo modo di raccogliere in nessun altro modo, per chissà ancora quanto tempo. La realtà supera qui decisamente la fantascienza: siamo ancora in contatto costante con due piccoli manufatti umani - costruiti negli anni settanta del secolo scorso - ora a più di ventidue miliardi di chilometri da Terra.

      Realizzazioni come quelle delle sonde Voyager ci confermano prima di tutto sulla straordinarietà della nostra stessa specie, capace di rovinose cadute come di incredibili imprese. Come ebbe a scrivere padre José G. Funes[16], “la Voyager è certamente una prova bellissima del fatto che sulla Terra ci sono degli esseri intelligenti capaci di sognare alla grande”.

        Il firmamento incantato, cioè, se da un lato sembra prepararci ad un salto quantico riguardo la possibilità della vita oltre la Terra, dall’altro ci ricorda quanto comunque sia peculiare e prezioso il nostro specifico ruolo nell’universo. L’abbandono di ogni ambizione di centro geometrico del cosmo, proprio del pensiero scientifico moderno, pare ricollegarsi paradossalmente al pensiero positivista riprendendone l’ansia decostruttiva, ma portandola al contempo su un livello più raffinato. Tutto questo, in preciso allineamento di fase con l’affinarsi del dialogo con il cosmo stesso, con la nostra nuova capacità di intendere messaggi e concetti che un tempo non avremmo potuto afferrare.

         In questo senso specifico, appare significativa una frase di Theodosius Dobzhansky:[17]

         “Prima di Copernico e di Galileo l’umanità pensava di essere il centro del mondo. Questa piacevole illusione ha ricevuto colpi tanto numerosi che qualsiasi teoria che volesse suggerirci che l’uomo è unico o centrale in qualsivoglia cosa ci sembra attualmente sospetta. Non bisogna, però, neppure fare un dogma dell’assenza di una posizione centrale e unica dell’uomo. Dopo tutto non è impossibile che l’uomo sia il solo essere del mondo dotato di ragione. E se l’uomo fosse il solo organismo dotato di ragione, potrebbe benissimo essere, in un certo senso, il centro del mondo. Non nel senso geometrico, senza dubbio, ma, ciò che più importa, nel senso spirituale”.

         Il pensiero moderno dunque si fonde con il pensiero più antico, non più confutandolo ed opponendosi ad esso in senso dialettico - permanendo così nello stesso orizzonte di comprensione limitata - ma riscoprendone la verità ad un livello diverso di consapevolezza. Ciò che un tempo era inteso in senso geometrico viene ora recepito in senso spirituale, superando il disincanto positivista ed aprendoci ad una fascinazione decisamente più profonda e pervasiva. Che cosa mirabile, che un piccolo pianeta alla estrema periferia di una grande galassia, possa rivestire un ruolo di centro spirituale del cosmo! Questo stupore non più ingenuo - o peggio ancora, pretenzioso - si sposa con la consapevolezza che questo nuovo cosmo, nel suo incanto, potrebbe custodire per noi delle grandi sorprese, in termini della stessa presenza di vita in altri ambienti oltre la Terra: di fatto, una eventualità sempre più familiare alla scienza moderna. In questo, ci piace qui ricordarlo, completamente in sintonia con il pensiero di Teilhard, che risulta, anche in questo, decisamente pionieristico: la sua idea di Noosfera, di un progresso cosmico verso strutture con sempre maggiore grado di cerebralizzazione, sembra configurare in questo senso un panorama di senso pronto ad accogliere anche le sorprese più eclatanti che l’indagine moderna degli spazi siderali può riservarci.

Una nuova visione potrebbe già palesarsi dietro l’angolo: a noi il compito di prepararci adeguatamente (per quanto ci è possibile), avendola prevenuta e pensata.

Un cielo nuovo per un uomo nuovo

Siamo destinati ad essere sorpresi, ancora. Mancano ormai pochi mesi al lancio del successore di Hubble, il James Webb Telescope. La data fatidica, che ha conosciuto una sfibrante serie di slittamenti, sembra infatti essersi attestata ad ottobre di quest’anno. La capacità osservativa di questo strumento che - a differenza di Hubble che si trova in orbita bassa - verrà posto a un milione e mezzo di chilometri da Terra, è tale che ci permetterà di gettare lo sguardo sulle più lontane galassie, ed insieme sulle prime fasi del cosmo, per quel noto processo di indagine che sfruttando la velocità finita della luce riesce a recuperare istantanee di un universo che non c’è più. Mentre scriviamo, le ultime prove a Terra sono state ultimate. In particolare, il dispiegamento del gigantesco specchio formato da 18 elementi assemblati a nido d’ape è stato testato con pieno successo[18].

 

Lo strumento è frutto di una collaborazione tra NASA, ESA e Agenzia Spaziale Canadese. Un ampio e articolato ventaglio di paesi dunque è direttamente implicato nello sviluppo di questa nuova magnifica avventura, che indagherà il cielo nelle bande infrarosse, quelle migliori per intendere il linguaggio del cosmo bambino e recepire la luce degli oggetti più distanti. Siamo già certi che ciò che andremo a scoprire non esaurirà minimamente il grado di affascinante mistero che permea tutto l’universo. Né compirà le domande ultime in modo definitivo: le rilancerà soltanto a nuove inaudite profondità, aiutandoci a raffinare ancora ed ancora le nostre frequenze, a risuonare ancora ed ancora in maniera sincrona con i movimenti più nascosti del cosmo, dei nostri cuori e dei nostri corpi umani, in una corrispondenza tra noi e le stelle che si fa ogni giorno più viva e reale, più benefica e rassicurante.

       Ogni progetto umano di domino sul creato, vogliamo credere, è definitivamente alle nostre spalle, archiviato in quanto non corrispondente al desiderio profondo del nostro cuore. Quello che cerchiamo è diverso, ed in questo la nuova scienza si candida ad essere amica e compagna di cammino, ad integrarsi con la cultura in senso più ampio e generoso, a riconnetterci all’ideale di uomo completo. Se ciò potrà avvenire, è anche per coraggiosi e lungimiranti precursori come Teilhard, che ancora oggi ci insegnano a guardare scienza e fede come parti integranti e irrinunciabili dell’umana avventura, del nostro tragitto in questo emozionante universo.

       Solo un uomo “nuovo” può davvero rendersi conto che vive sotto un cielo “incantato”. Cosa vediamo nel cielo, è rivelativo del modo in cui guardiamo tutto: mai come adesso, l’astronomia appare una vera “scienza dell’anima”.

        Prendiamo dunque tutti parte a questa avventura, che non chiede alcun prerequisito, perché risponde ad una esigenza profondamente iscritta nel nostro cuore. Nel cuore di ogni donna, di ogni uomo che vive sul nostro piccolo ed incredibile pianeta, su questo pallido puntino blu. Punto di osservazione privilegiato, per tutto l’universo.

Una immagine artistica del James Webb Space Telescope una volta in orbita, con il grande specchio a nido d’ape completamente aperto. Il successore del glorioso Hubble Space Telescope, dopo una lunga serie di ritardi - dovuti al costo e alla complessità dell’impresa - dovrebbe finalmente essere lanciato ad ottobre di quest’anno. La sua capacità di osservazione è senza precedenti e ci consentirà di acquisire informazioni riguardo le prime fasi di vita del cosmo, aiutando a consolidare i modelli teorici ed insieme, a rilanciare l’indagine ancora oltre, aprendoci a nuove e stimolanti domande. 

Articolo pubblicato su Teilhard aujourd'hui 36 (giugno 2021)

 

 

 

[1] Come già accennavo nell'intervento del Numero 34 (ottobre 2020)

[2] Vedi in proposito il mio intervento sul sito dell'Associazione Italiana Teilhard de Chardin (https://www.teilhard.it/cosmologia-e-astrofisica-la-nuova-scienza)

[3] Leonardo  Boff, Mark Hathaway, Il tao della liberazione, Fazi Ed., Roma 2014

[6] Per una galleria di stupende immagini, vedi per esempio https://esahubble.org/images/

[7] Notiziari online come MEDIA INAF (https://www.media.inaf.it), dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, riportano con fedeltà accessibile al grande pubblico, tracce del flusso di scoperte ormai quotidiano

[9] Alessandro Baricco, "Mai più, prima puntata", https://tinyurl.com/baricco-covid

[10] Nature, 215, 1259-1260 (1967)

[13] Il riferimento è ad un omonimo lavoro del cantautore Franco Battiato, recentemente scomparso, di cui ci piace qui ricordare qui la sua efficace espressività poetica, così spesso nutrita di suggestioni squisitamente astronomiche.

[15] Vedi anche il mio intervento sul Numero 27 (giugno 2018)

[17] Citata nell'introduzione al volume  Il Fenomeno umano di Pierre Teilhard de Chardin (Queriniana, Brescia 20207), a firma di Ludovico Galleni

[18] Vedi al proposito https://tinyurl.com/jwst-test

 

 

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