Cercare l'aurora di Dio. Pierre Teilhard de Chardin e Etty Hillesum

Marie-Jeanne Coutagne

Cercare  l’aurora[1] di Dio

Pierre Teilhard de Chardin e Etty Hillesum[2]

 

Dottore in filosofia, ricercatore associato presso l’Università Cattolica di Lione, responsabile del Centre Maurice-Blondel (Aix-en-Provence), presidente dell’Association des Amis de Maurice Blondel, segretario generale incaricata del fondo documentario presso la Fondation Teilhard de Chardin.

 

ELETTRA. – A che punto siamo?

LA MOGLIE DI NARSETE. – Mi spiego! Non colgo mai

rapidamente. Sento evidentemente che avviene qualcosa

ma me ne rendo conto a fatica. Com’è

che si chiama, quando sorge il giorno, come

oggi, e tutto è  confuso, tutto è sconvolto,

e tuttavia l’aria è respirabile

e tutto è perduto, brucia la città,

gli innocenti si uccidono a vicenda

ma i colpevoli agonizzano in un angolo del giorno che sorge?

ELETTRA. – Chiedi al mendicante. Lui lo sa.

IL MENDICANTE. – Questo ha un bel nome, Moglie di Narsete.

si chiama l’aurora.[3]

Chiarire attraverso le differenze

Diciamo subito che tentare un confronto o addirittura un dialogo tra Pierre Teilhard de Chardin e Etty Hillesum è al meglio un’assurdità, al peggio un’incongruenza! Non solo li separano troppe cose, ma allorché si evoca per entrambi l’attraversamento tragico della guerra nel corso della quale i loro pensieri si sono fecondati, bisogna subito precisare che uno l’ha fatta come portaferiti, cioè come militare in prima linea (anche se privo di armi), l’altra l’ha subita come civile e come ebrea: d’altronde come osare un paragone tra le due guerre mondiali, la seconda delle quali è stata segnata dall’incontro con una figura di Male assoluto, di cui Etty sarà la vittima dolorosamente lucida? Per di più le frasi teilhardiane sulla Shoah sono purtroppo di una notevole discrezione, non giustificata del tutto dal suo esilio in Cina.

Se tuttavia si vuole insistere, si riconosce facilmente in Teilhard un pensiero caratteristico della famiglia di intelletti più simili a un Tommaso d’Aquino, per la sua prevalente attenzione al mondo, portatore dei segni di un Dio che vi si scorge presente, mentre Etty sarebbe senza dubbio più vicina alla famiglia agostiniana, attenta all’interiorità, dove si sente nell’intimo la voce flebile di Dio.

Pertanto mi si permetta di ostinarmi, malgrado tutto… Alla condizione tuttavia di non delineare né un dialogo, né un paragone, né ancor meno un confronto, ma piuttosto una visita! È qualcuno che è talmente affezionato al femminino da arrivare a scoprire, nel suo gesto creatore, la dimensione dell’umano anche se irriconoscibile e sfigurato; in ultima analisi, “farebbe visita” a Etty, ed ella accetterebbe forse di ricevere questa visita inattesa come inviata da un Dio. Quel Dio al quale entrambi si affidano senza riserve, visto che per l’uno e per l’altra, l’esercizio del pensiero è un diritto e un dovere, al quale nulla può indurre a sottrarsi, senza rischiare il fallimento della propria umanità!

Tracciando così le linee della nostra riflessione non dovrò camuffare le differenze che elencherò passo passo. Tenterò poi di capire il senso della loro “fedeltà” e ciò che li porta a affermare, contro ogni evidenza, che devono entrambi, in seno ai drammi attraversati “aiutare Dio”. In che cosa tutti e due ci potranno essere utili di questi tempi?

 

La prova

L’itinerario di Padre Teilhard fino al 1914, quando è mobilitato per la Grande Guerra, è stato quasi del tutto lineare. 

Fortemente radicato nella sua natia Alvernia, cresce in seno a una famiglia numerosa e affettuosa, impregnata di tradizioni della vecchia Francia, dove sotto la direzione del padrone di casa e della madre molto pia, si pregava ogni sera in comune, genitori, figli e domestici. Più tardi Teilhard dirà spiritosamente “la nostra famiglia è da inquadrare”. Ragazzo brillante ma riservato, avviato da suo padre alle ricerche nelle scienze naturali, lascia con dispiacere i prati, i boschi familiari e la casa avita per il collegio di Mongrès, sulla porta del quale scopre queste serie parole: È necessario che i maestri incaricati di educare la gioventù le insegnino a santificare la scienza attraverso la religione e a servire la religione attraverso la scienza”, programma che diventerà il suo. Il collegio, tenuto dai padri gesuiti dal 1848, e che ebbe precedentemente celebri allievi come Claude Bernard o Pierre Termier, segnerà rapidamente l’adolescente, molto apprezzato sia dai professori di scienze sia da quelli di discipline letterarie. La vocazione arriva - in un certo senso - del tutto “naturalmente” e il giovane Pierre entra nel noviziato gesuita nel 1899, a Aix-en-Provence. A diciassette anni l’ambiente familiare dove Dio è il “primo a essere servito”, e l’educazione gesuita non spiega se non in parte questa vocazione ponderata, nata dal “desiderio di ciò che è più perfetto”. Tuttavia nessun grande turbamento fu da superare. Nel 1901 primo esilio causato dalle leggi eccezionali del 1905: il “carissimato” e lo “scolasticato” vengono trasferiti in Inghilterra dove Teilhard finisce i suoi studi, con un intermezzo al Cairo, come insegnante di fisica, dove si rafforza il suo “amore per le pietre!”. Certo, leggendo Newman Teilhard azzarda alcune audacie, ma malgrado l’amicizia con Padre Valensin, il dibattito sul modernismo lo tocca poco, anche se ne conosce i protagonisti. La sua pietà è profonda, ma ancora assai tradizionale, e nutre una fede che mai si smentirà. Ben inteso praticherà regolarmente gli Esercizi del “nostro Padre Ignazio”. Da quell’epoca la vita di Teilhard è uno svilupparsi e dispiegarsi della sua pietà eucaristica verso Cristo, in modo più specifico verso il Cuore di Gesù, centro inalterabile dell’intero cosmo: Cristo, unica e divorante passione di questo figlio della Terra.[4]

Anche quando Teilhard, giovane prete, tra il 1912 e il 1914, si dà alle scienze, tale avventura si realizza automaticamente, e il giovane ricercatore si fa ben volere da tutti, soprattutto dal suo professore Marcellin Boule, originario come lui dell’Alvernia, temibile per l’asprezza del suo linguaggio e le sue vigorose resistenze nei confronti del clero!

L’equilibrio si rompe quando, nel dicembre 1914, è strappato al Terzo Anno, iniziato a Canterbury, per essere mobilitato e destinato alla 13ma sezione infermieri: vuole partire per il fronte e nel gennaio 1915 viene assegnato a quello che diventerà il quarto reggimento misto di zuavi e fucilieri marocchini: “un mattino, racconta il maggiore medico Dottor Salzes, (…) proveniente da Clermont-Ferrand, vedo arrivare da solo, come portaferiti del reggimento, un uomo giovane, alto, semplice e distinto, dallo sguardo chiaro che non lasciava dubbi su un’intelligenza e un cuore aperti. Per diventare ancor più «arabo» aveva scambiato l’azzurro cielo con il kaki delle truppe africane, e il képi con il fez (…)[5].

 Abbiamo qui la prima rottura. Perché Teilhard più tardi, nel 1917, preciserà, quando la sua situazione di “brancadier honoraire” viene regolarizzata, di voler restare: “libero di svolgere funzione di cappellano nei tre battaglioni senza essere assoggettato ad alcun servizio. È la forma di cappellano che ho indicato essere più conforme ai miei gusti e la più utile”. In effetti, gli interessa rimanere vicino agli uomini, il più vicino possibile alla prima linea, nel fango e nell’orrore delle trincee, senza i vantaggi che potrebbe dargli la nomina a cappellano. Un atteggiamento simile lo si ritroverà in Etty!

Anima scelta, in un reggimento scelto, che pagò un pesante tributo alla guerra, Teilhard si è battuto egregiamente. Inviato in punti difficili per recuperare i feriti e i morti, ottiene citazioni e medaglie, e quando gli fu ancora una volta proposto di uscire da quel ruolo modesto ma necessario di portaferiti, replicò: “sono più utile in tale ruolo; posso farvi più del bene. Fatemi il favore di lasciarmi in mezzo agli uomini.”

  Sensibile agli strazi e ai dolori che assalgono la quotidianità della sua vita tra i combattimenti (pur dando prova di una grande discrezione), affrontando incessantemente la morte (“coloro che non sono mai stati sul punto di morire non hanno mai intuito completamente ciò che stava loro dinnanzi”)[6], ha piena fiducia in Dio e si abbandona a Lui senza inquietudine, in totale fedeltà.

Se si prende atto delle differenze evidenti con il destino di Etty Hillesum, non fosse altro che la differenza di sesso e di generazione (Etty nasce nel momento in cui Teilhard è richiamato), si intuisce tuttavia che si delineano delle similitudini. Per Teilhard la Grande Guerra costituisce uno sbilanciamento e l’occasione di una prima consapevole scelta radicale, come la seconda guerra mondiale e l’invasione nazista costituiscono per Etty, nel maggio 1940, l’inizio di un chaos che scopre poco a poco e che relativizza ben presto l’apparente disordine della sua vita personale, libera e sensuale, protetta fino a quel momento da una famiglia affezionata che costituirà sempre per lei una sorgente viva e una ragione per sperare… nonostante tutto. 

È tempo in effetti per lei di cercare, dapprima nei suoi autori preferiti, in primo luogo nel suo amato Rilke e anche Dostoievskij o Tolstoj, di che nutrire la propria vita, attraversata da luci ma anche da vuoti terribili. Il suo male è profondo, qualunque ne sia la causa! Oppressa da un peso esistenziale, ha sfiducia nella vita, tentata per un attimo dal suicidio, riconosce con lucidità che sarebbe il gesto di una bambina “vile e viziata”.

Etty, giovane donna “moderna” e poco convenzionale, più abituata allo scenario urbano che ai paesaggi di campagna, si pone, come si constata subito, agli antipodi di una personalità come quella di Teilhard!

 L’inizio delle persecuzioni costituisce per lei un capovolgimento decisivo. Dapprima perché le ricorda crudelmente la sua origine ebrea (mentre fino ad allora se ne è poco curata!) e la proietta in qualche maniera tra le braccia di Julius Spier, psicologo ebreo tedesco rifugiato da poco a Amsterdam e di cui si parla molto. E Spier, come si sa, la spinge a immergersi radicalmente nel profondo di sé e l’incita a far prendere nuovo corso alla sua vita. Spier assume autorevolmente il ruolo di un maestro, anche in quell’arte sconcertante che si attribuisce a Dio di scrivere dritto su linee storte. Spier, ricercatore di Dio, serve da “mediatore” tra Dio e Etty, permettendole di diventare a sua volta mediatrice nei confronti di tutti coloro che lei aiuterà e curerà. Facendo emergere Dio in Etty, le permette di continuare a cercarlo ancora e ancora, persino sotto il deformante orrore.

Non dimentichiamoci, a proposito di Teilhard, che una mediatrice assume per lui un ruolo altrettanto importante, che permette al gesuita di affrontare - con la fecondità spirituale che conosciamo - i disastri coi quali deve confrontarsi: la cugina Marguerite Teilhard-Chambon, alla quale lo lega un profondo affetto e un’affinità che costituisce tutta la ricchezza del loro epistolario, serve anch’essa da “mediatrice”, permettendo a Teilhard di partorire se stesso, e ancor più di far nascere Dio nel più intimo del suo cuore, lui che sembrava conoscerlo, ma che ne scopre ogni giorno di più la luce. La presenza paziente, intelligente e fedele di Marguerite costituisce la figura di riferimento (a quell’epoca e anche più tardi) di quell’Eternel Féminin al quale dedica, alla fine della guerra, uno dei suoi testi più belli[7].

In che cosa, per tutti e due, il maschile si fa mediatore per il femminile e viceversa?

Nell’uno e nell’altra, tramite un mediatore necessario, si opera una metanoia, una metamorfosi decisiva, una nascita dolorosa e luminosa ad un tempo. In entrambi i casi si tratta di un processo “agonistico”, d'una lotta, dove la disperazione talvolta, in ogni caso una profonda stanchezza, attendono al varco. Attraversano abissi di tristezza, sprofondamenti di cui Teilhard affronta la spaventosa realtà sui campi di battaglia e di cui Etty scopre l’orribile travisamento a Westerbok, senza alcuna illusione sulla sorte di coloro che vi sono rinchiusi. Sorte dalla quale lei non vorrà defilarsi.

Per loro due si tratta proprio, secondo la stessa espressione teilhardiana, di una “lotta sincera di Giacobbe contro la stretta adorata”[8], dove il mondo si scopre così pesante da sostenere, dove ogni uomo cerca avidamente la sua immagine veritiera nella simpatia per ogni Dolore. “La verità - dichiara Teilhard nel 1916, - sulla nostra situazione in questo mondo, è che noi siamo in esso come in croce”[9]

Nel mistero di questo terrificante crogiuolo si costruisce sia per l’uno che per l’altra ciò che diventerà un’opera[10] e che si rivelerà poco per volta per tutti e due la Presenza di Dio, quella Shekinah che Etty sente nel più intimo di se stessa (Hineinhorchen) e che Teilhard  inscrive nel sorriso[11], nel successo della vita e in ciò che definisce la Diafania, cioè la trasparenza dell’universo, che permette allo sguardo “rinnovato” e purificato di discernervi misteriosamente e paradossalmente la presenza di Cristo.

 

Aiutare Dio…

Il confronto con il male conduce i nostri due protagonisti su un cammino interiore nel quale ciascuno riconsidera in profondità la propria intima relazione con Dio e anche con il mondo stesso: rifiutando una visione della vita convenzionale, il coraggio consiste allora nello staccarsi da tutto, da tutte le regole. Per entrambi occorre, secondo un’espressione di Etty che senza dubbio sarebbe piaciuta a Teilhard: ‘‘osar fare il grande salto nel cosmo”: allora la vita anche al culmine della tristezza diventa un dono. Ciascuno trova pace in questa nuova intimità con un Dio che è amore, ultimo paradosso nei tempi terribili che essi vivono.

L’uno e l’altra, ben inteso in modi differenti, preparano quella che diventerà, con Hans Jonas per esempio, la teologia del “dopo Auschwitz”: quella che mette in evidenza la collaborazione attiva dell’uomo alla théergie, come ebbe a dire già Blondel, a causa di un Dio Amore che ha scelto di aver bisogno degli uomini per essere riconosciuto e accolto, per agire attraverso essi in mezzo alle tenebre del mondo. La vita pur nella sua assurdità è piena di senso!

La vera potenza di Dio si colloca e si vela nel Deus absconditus che alberga nel cuore fragile dell’uomo, proprio quando ciascuno avverte la sua apparente “eclissi”, secondo l’espressione di Buber.

Bisogna quindi orientarsi nel senso di un’accettazione della vita e della morte, ogni giorno rinnovata in piena fedeltà, che suscita, al di là dei dogmi, le formule più audaci: non solo, in effetti, si tratta di aiutare Dio a non spegnersi in sé, ma ancor più, di fronte a un destino tragico di massa e senza alcuna illusione, di “aiutare gli altri”: “prenderò - dice Etty -  come principio quello di ‘aiutare Dio’ il più possibile e se ci riesco sarò là anche per gli altri! (…)”. “Se - dichiara poco prima - Dio cessasse di aiutarmi toccherà a me aiutare Dio!” (11 luglio 1942).

Sorprendentemente già in Teilhard si trova una formula simile. Anche lui infatti ha affrontato la terrificante oscurità del mondo e quello che Etty chiama “un destino di massa” nelle trincee della Grande Guerra. Anche lui è stato costretto a estraniarsi dal contesto degli avvenimenti della più spaventosa tormenta, per ritrovare se stesso, e poi ritrovare Dio. Per Teilhard non si tratta solo di verificare il noto detto popolare: “aiutati che il ciel t‘aiuta!”[12], ma occorre andare ancor più in là!

Esaltando l’impegno umano e acconsentendo a una dinamica universale come Etty a modo suo, parafrasando il ‘‘Dei adjutores sumus” paolino, Teilhard osa sostenere poco dopo la guerra, nel 1921 davanti a un gruppo di giovani ferventi cristiani:

“Il nostro dovere di Uomini è di agire come se i limiti della nostra potenza non esistessero. Diventati, con l’esistenza, i collaboratori coscienti di una Creazione che procede in noi per condurci verosimilmente ad un punto finale (anche terrestre) ben più elevato e distante di quanto possiamo pensare, noi dobbiamo aiutare Dio con tutte le nostre forze.[13]

Già in una lettera a Marguerite del 4 agosto 1916, in mezzo ai combattimenti nella Champagne, scriveva: “Nulla deve rimanere intentato nella direzione del più-essere. Il cielo vuole che noi ci aiutiamo (che l’aiutiamo)”[14]

In modo sorprendente abbandono e azione, adorazione e accoglienza, riposo e inquietudine, si coniugano misteriosamente! Nessun venir meno della volontà in ciò che è al contrario preservazione della nostra dignità umana, deposta in noi da colui del quale siamo immagine; la potenza che attribuisco a Dio, e grazie alla quale agisco per Lui e in Lui, viene evidentemente da Lui. L’assoluto non si coglie con la forza, si fa scoprire, amare e si dona, a coloro che si immergono in Lui. È per questo che è possibile “assorbire il male in un eccesso di fedeltà!”[15]

Ciò che rende valida un’esistenza è in ultima analisi il “passaggio in uno più grande di sé”[16]. Ma, ammette Teilhard, per “spaccarsi e aprirsi occorre che il frutto sia maturo!”[17]  Strana coincidenza questa con Etty!

Questa convinzione propria di Teilhard già al tempo della prima guerra mondiale, è da lui riaffermata con forza quando il suo esilio in Cina lo allontana dai suoi e lo costringe prigioniero della drammatica guerra cino-giapponese e poi delle peripezie della seconda guerra mondiale. Tutto il suo impegno mira ancora una volta a ricondurre la vita a qualcosa di più grande, senza venir meno alla fedeltà. Egli precisa che in ciò consiste la vera gioia, senza che ci si preoccupi di ciò che ciascuno sente di essere, perché “nulla resiste all’affetto e alla bontà soprattutto quando essi attingono alla sorgente divina”[18].

Questa conversione, che è trasfigurazione, per Teilhard è inseparabile dalla sua fede cristologica e dalla devozione eucaristica verso un Cristo sempre più grande: “la verità sulla grandezza di Cristo è di essere senza limiti. Vada avanti con il cuore e con l’intelligenza, ma senza mai separarsi dal tronco (dal phylum) cristiano!”[19].

Così mentre Etty entra, colma di un sentimento di eternità ma senza paura, nell’inferno di Auschwitz, Teilhard indica esplicitamente quello che Etty non ha mai nominato, Cristo: tuttavia entrambi sono sorprendentemente vicini l’uno all‘altra. Per entrambi si tratta proprio di amare il prossimo come se stessi, di discernervi ciò che Lévinas chiamerà un Volto, di aprirsi a lui per servirlo e riceverne l’irriducibile specificità e unicità personale. Un tale sguardo d’amore costituisce già una redenzione per colui da cui parte, come per colui al quale si dirige. “Dio costruisce sulle nostre fragilità.”[20]

Il Cuore divino attrae a sé, ed è in quel cuore bruciante d’amore malgrado le ombre pesanti e profonde, che dobbiamo anche noi radicarci, in quell’incandescenza essere anche noi “cuori pulsanti”, secondo l’espressione di Etty!

 

In questi tempi che stiamo vivendo, oscuri e inquieti….

Così Teilhard e Etty senza che noi abbiamo cercato di confondere i loro destini, ancor meno le loro meditazioni che hanno ciascuna una propria particolarità e costituiscono una ricchezza, ci invitano alla fiducia e alla pace, in questi nostri tempi inquieti.

Siamo consapevoli che ogni giorno oscura il nostro orizzonte e rimette dolorosamente in discussione la nostra speranza. Ci sentiamo persi, talvolta abbandonati, insignificanti nelle nostre azioni così inefficaci!

Così Pierre Teilhard de Chardin e Etty Hillesum mi parrebbero oggi, nelle urgenze che ci assalgono, entrambi necessari: un uomo, un prete, una donna, d’origine ebrea, i quali hanno una fede profonda che pare tuttavia fuori da qualsiasi dogma!

Tutti e due ci precedono! Ci indicano un itinerario in cui il desiderio e la fragilità di ciascuno di noi può trovare la strada verso la pace e la gioia interiori. Trasfigurati dalla fede, nel cuore della sventura, siamo ancora capaci d’amore nell’intimità con Dio, se riusciamo a decifrare i segni della sua misteriosa presenza all’interno della sua apparente e lacerante assenza. 

Dio non è un potere tirannico, la sua ‘‘potenza” passa attraverso la nostra libertà, la richiede e suppone la nostra azione paziente e fiduciosa. Non si tratta di nient’altro che di un cammino di Grazia! Proprio quando continuiamo a lottare con l’Angelo….

La sofferenza può ucciderci, “decomporci”, ma può anche nell’unità e la semplicità, essere, nell’audacia dell’amore di qualcosa di più grande di noi, sorgente viva: se osiamo al di fuori di noi stessi amare più di noi stessi, e “con ciò attraversare la morte per cercare la vita”[21]

 

Colui che è stato vinto da quell’angelo, 

– che aveva così spesso rinunciato al combattimento –

esce a testa alta, andatura eretta,

esce grande da quella rigida mano

che l’abbracciò per formarlo.

Non lo tentano i trionfi.

Crescere, per lui, è essere

profondamente vinto

da una forza più grande.[22]

 

Libro di Osea 2,16b.17b.21-22.

Sedurrò la mia sposa infedele, la condurrò fino al deserto e le parlerò cuore a cuore  e là, le renderò i suoi vigneti, e farò della Valle-della-Sciagura la porta della speranza. Là mi risponderà come al tempo della sua giovinezza, nel giorno in cui è uscita dal paese d’Egitto. Tu sarai la mia fidanzata, e sarà per sempre. Tu sarai la mia fidanzata e ti darò giustizia e diritto, amore e tenerezza; e conoscerai il Signore.

 

  • Nella Festa di santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein), vergine e martire, compatrona dell'Europa (9-8-2014)

 

                               Traduzione dal francese di Annamaria Tassone Bernardi

 

 Articolo apparso su Teilhard aujourd'hui 16 (dicembre 2014)

 
 
 
 

[1]  ETG p. 329.       

[2] I testi cui faremo più spesso riferimento sono:

Pierre Teilhard de Chardin Genèse d‘une pensée, rééd. Coll. Cahiers Rouges, Grasset, Paris 1997 (GP).

 Ecrits du Temps de la Guerre, rééd. Coll. Cahiers Rouges, Grasset, Paris 1992 (ETG).

Le  altre opere sono citate dalle Œuvres Complètes (OC) in 13 voll. delle Editions du Seuil.

Per le precisazioni biografiche il libro di Claude Cuénot Pierre Teilhard de Chardin, les grandes étapes de son évolution, Plon,  Paris 1958, (CC) rimane un necessario riferimento.

I testi di Etty  Hillesum sono egualmente editati da  Editions du Seuil, in particolare: Une vie bouleversée, seguito dalle Lettres de Westerbork, Editions du Seuil, 1995(VB ou LW).

I seguenti libri hanno aiutato la nostra riflessione: 

Paul Lebeau Etty Hillesum.un itinéraire spirituel. Amsterdam 1941-Auschwitz 1943, Albin Michel, Paris 2001.

Sylvie Germain Etty Hillesum, ed. Pygmalion, Paris, 1999, (SG).

Karima Berger Les attentives, ed. Albin Michel, Paris, 2014, (KB).

Michel Fromager, Un joyau dans la nuit, introduction à la vie spirituelle d’Etty Hillesum, ed DDB, Paris, 2014

E anche  Anne Frank Journal, Livre de Poche, 2001 (AF).

[3] Da Electre, di Jean Giraudoux.

[4]  CC p. 29.

[5]  CC p. 38.

[6]  Pierre Teilhard de Chardin, ETG  p. 313.

[7] Pierre Teilhard de Chardin, Marzo 1918, ETG p. 249 ss.

[8] Pierre Teilhard de Chardin, ETG p. 54.

[9] Pierre Teilhard de Chardin, ETG p. 56.

[10] Anche se questa espressione è sconcertante nei confronti di Etty! L' opera di Teilhard si costruisce interamente nel cuore della guerra: nei momenti in cui si calmano i bombardamenti trova il tempo di scrivere una ventina di saggi che sono la matrice dei suoi libri futuri.

[11] Pierre Teilhard de Chardin, Genesi di un pensiero, cit., p. 97, 22 luglio 1916.

[12]  ETG p. 325.

[13] Pierre Teilhard de Chardin, La scienza di fronte a Cristo, tr. it. Il Segno dei Gabrielli, Verona 2002, p. 60.

[14] Pierre Teilhard de Chardin, Genesi di un pensiero, cit., p. 99.

[15] Pierre Teilhard de Chardin, lettera a E. Le  Roy, Tien-Tsin, 24 janvier 1927.

[16] Pierre Teilhard de Chardin, Lettres de voyage, Paris, ed Grasset, 1956, 25 novembre 1942, pp. 277-278.

[17] Pierre Teilhard de Chardin, lettera a Padre Valensin, 29 dicembre 1919.

[18]  Pierre Teilhard de Chardin, lettera a Madame H. Cosme, Pékin 11 juillet 1944

[19]  Pierre Teilhard de Chardin, lettera a Padre Leiris, 18 août 1944

[20]  Pierre Teilhard de Chardin, cfr. lettera all’Abbé Godefroy, 15 août 1923

[21]  Pierre Teilhard de Chardin, ETG, p. 130.

[22] Rainer Maria Rilke, (der Schauende) Le contemplateur, in Le Livre d'images, Œuvres 2, Seuil, Paris, 1972, p. 151 (citato da Sylvie Germain, op. cit., p. 118).

 

 

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