Umano e postumano: una questione di definizioni?

Silvana Procacci

 

Umano e postumano: una questione di definizioni?[1]

 

Silvana Procacci è Dottore di Ricerca in Filosofia e scienze umane presso l’Università degli Studi di Perugia. Studiosa di filosofia della natura. Ne ha sviluppato le prospettive evoluzioniste in rapporto alla teologia e alle scienze, con particolare riguardo al pensiero di P. Teilhard de Chardin. Fa parte di progetti internazionali relativi al dialogo tra scienza, filosofia e teologia legati alla John Templeton Foundation.

E’ autrice di più di 30 saggi e articoli scientifici. Tra i libri pubblicati ricordiamo Hans Jonas. Confrontarsi con la finitezza, Morlacchi, Perugia 2012. Ha inoltre curato la prima edizione italiana di P. Teilhard de Chardin, La scienza di fronte a Cristo. Credere nel mondo e credere in Dio, Il Segno dei Gabrielli, Verona 2002 e Verso la convergenza. L’attivazione dell’energia nell’umanità, Il Segno dei Gabrielli, Verona 2004.

 

Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie.  […] L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo

    F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Club, Milano 1983, p. 7-8; 10.

 

 

      1. L’uomo in questione

Lo sviluppo della scienza ha raggiunto traguardi tali da mettere le mani su parte dell’uomo ritenute un tempo inviolabili: oggi il corpo, ritenuto da molti il tempio dell’anima, è in pericolo; la mente, luogo dell’identità del soggetto, può essere violata, il nostro cervello “affidato” ad una macchina. Il corpo è ora affittato e distribuito: si conserva il proprio sangue, il proprio seme, si affitta il proprio utero, si utilizzano le proprie cellule per riparare il proprio corpo, ma anche per seguire mode, obiettivi narcisistici, ottenere benefici economici, realizzare sogni perversi, ambire all’immortalità. Il corpo modificato, venduto. Il corpo escluso, appaltato. I pensieri, tradotti in onde cerebrali, seguiti e spiati. Le emozioni indotte e riprodotte. C’è dunque chi parla di un’età nuova, quella post-umana.

Ma che cos’è il post-umano? Chi lo difende, lo propone spesso come tramonto definitivo dell’umanesimo. Ma è proprio così? Sulla base di quale ragionamento tracciamo il confine tra l’umano, il post-umano, il sub-umano e il non-umano? Rispetto alla soggettività umana, il post-umano è un perire o un ri-posizionarsi? Esiste una natura umana già compiuta, oppure l’umano è un essere la cui materia e forma sono, per così dire, malleabili e flessibili, modificabili dal soggetto presente? C’è un soggetto che è solo relazione o è anche sostanza? I post-umanisti intendono migliorare e potenziare le proprietà dell’umano arrivando persino a teorizzare futuri scenari visionari di ibridazione uomo-macchina, come nel caso del cyborg, o di trasferimento delle proprietà coscienziali del soggetto su di un supporto informatico. In questo caso si potrà parlare sempre di soggetto cosciente? Ciò implica che in futuro si potrà scegliere tra l’immortalità informatica e quella religiosa? E ancora, il passaggio tra umani e post-umani avverrà come naturale speciazione o come creazione portata avanti dall’uomo stesso? Il post-umano infine porta con sé necessariamente anche il riferimento a forme di vita inferiori, sub-umane, magari sfruttabili dall’uomo stesso, per scopi lavorativi, medici, ludico-sessuali o anche di riserva di materiale biologico. Si parla molto e giustamente dei diritti degli animali. Quali saranno i nuovi problemi etici e giuridici che scaturiranno dalla coesistenza di sub-umani, umani e post-umani? Si palesano scenari di convivenza o lotta tra specie? Come si può vedere da questi interrogativi, il tema è molto complesso.

In questo mio contributo si è pensato di compiere una sintetica ricognizione sulle accezioni del termine “post-umano” e di individuare la sua radice filosofica. Viene messa in luce la matrice cartesiana del post-umano e confrontata con altre analisi filosofiche concernenti il rapporto natura-cultura (come quella di Heidegger, di Teilhard de Chardin, di Jonas e di Merlau-Ponty), per sostenere l’impossibilità di prescindere dall’attività razionale tipica dell’umano anche quando si parla del post-umano.

Benché non appare più possibile incasellare l’umano all’interno di un universale concetto di “natura umana”, si arriverà a proporre una lettura in chiave evolutiva della nozione di “natura”, in considerazione anche del dato biologico che i nostri a priori risultano in realtà degli a posteriori filogenetici, ossia il prodotto di specializzazioni e adattamenti. In questo senso, diventa ragionevole radicare la normatività e la dignità umana non tanto su una visione essenzialista e statica dell’essere (umano), quanto piuttosto sulla crescita di complessità dell’essere stesso, dove la coscienza riflessa assume un ruolo fondamentale nell’evoluzione tra le specie[2]. In questo modo è possibile evitare il vizio di antropocentrismo tanto criticato dai post-umanisti e, allo stesso tempo, salvare la specificità dell’uomo e giustificare lo spazio etico.

 

      2. Le accezioni del “post-umano”

Diverse sono le accezioni del termine “post-umano”. Ad oggi, il termine viene sempre definito e riferito in relazione all’umano. Per questo l’interrogativo sul post-umano si trasforma o comunque rimanda alla domanda “che cos’è l’uomo”.

Se guardiamo la vastissima letteratura esistente, il tema del post-umano è direttamente connesso con la definizione di “umano” e rimanda all’antica e mai tramontata questione della “natura umana” e al problema della sua definizione concernente la possibilità o meno di parlare di un’essenza umana o di un’eidetica antropologica. Risulta quindi chiaro che il dibattito sul post-umano è connesso a quello, molto più complesso, che è stato affrontato, nel corso storico dell’indagine filosofica, attraverso la nozione di anima, di persona, di identità umana, di soggettività, di rapporto mente-corpo, di ibridazione uomo-macchina e finanche uomo-animale. In questo senso, il post-umano riguarda questioni teoretiche classiche dell’indagine filosofica ma, in alcune estremizzazioni, ha la pretesa di scivolare facilmente nel trans-umanismo in cui si teorizza un vero e proprio oltrepassamento dell’umano.

Per operare una ricognizione su cosa sia il post-umano, partirò per prima cosa dai significati principali del termine. Tenendo conto dell’abbondante letteratura sul tema, il post-umano può assumere almeno tre accezioni[3].

La prima riguarda l’ibridazione uomo-macchina e concerne la sostituzione tecnologica del corpo umano o di alcuni suoi pezzi con artefatti, siano essi biologici (industria genetica) o meccanici (bionici o robotici, sembionti e comunque di carattere cibernetico-informatico, come nel caso del cyborg)[4]. Questa implementazione porterebbe a un uomo fisicamente modificato e, in parte, “ri-fatto” o perfino completamente riprogettato dall'uomo stesso per mezzo della tecnica. J. Huxley preconizzava il trascendimento dell’uomo al fine di superare i suoi limiti biologi nei primi anni del Novecento. Oggi, un post e trans-umanista come Nick Bostrom, concepisce il post-umano come creazione di una nuova specie, come possibile prodotto della selezione ambientale imposta dai gravi problemi ambientali ed ecologici causati dall’uomo stesso[5]. Tale prospettiva apre il discorso a problemi etici quali, fra tanti, quelli relativi alla responsabilità per la nuova forma creata e la convivenza tra la specie umana e quella post-umana.

Una seconda accezione è rappresentata dal post-human considerato come post-umanismo, e connesso alla crisi della visione antropocentrica sviluppata nel Rinascimento e che è messa in discussione sotto vari aspetti, a partire dal XX e XXI secolo, dal darwinismo in biologia, dalla psicoanalisi, dallo strutturalismo alla teoria dei sistemi complessi, dall'animalismo alle neuroscienze, dalla cosmologia all’ecologia. Si tratta di prospettive che, pur nella loro diversità, demoliscono l'idea dell'indiscussa supremazia umana a livello ambientale, cognitivo, ontologico e cosmologico[6].

Infine vi è una terza accezione, di carattere “epistemico”, e che riguarda la costituzione dell'uomo nella geografia dei saperi, la sua emersione all'interno degli stessi come oggetto di sapere tramite le scienze umane e il suo fungere quindi da principio regolatore. Questo è il modello che è stato prospettato nell’Übermensch di Nietzsche e nella “morte dell’uomo” di Foucault. In questo senso il superamento dell'umano si pone sullo stesso piano del superamento del divino, per cui il motto di Nietzsche “Dio è morto” si traduce nel motto “l'Uomo è morto”.

Come ha osservato Galimberti, sostenere che “Dio è morto” significa che, se nel trattare del Medioevo non si può fare a meno di confrontarsi con problemi teologici e con impostazioni religiose (ad esempio nell'arte, in cui il divino è sempre presente), nell'Ottocento, quando scriveva Nietzsche, la storia, l'arte e la cultura in generale potevano benissimo prescindere dal discorso su Dio (nell'arte infatti i personaggi sacri scompaiono quasi del tutto, o vengono ripresi in modo ironico). Nell’episteme ottocentesca è invece impossibile sottrarsi all'idea di “Uomo”: è proprio di quel periodo ritenerlo l’artefice della storia, considerare il pensiero umano l’espressione dello Spirito, concepire l'arte come il riflesso dell'umanità dell'artista e della sua possibilità di elevarsi ad un punto di vista assoluto. È coerente con questa impostazione pensare che la rivoluzione riscatti l'uomo dal suo stato di alienazione e che la religione sia l’espressione culturale degli eterni dilemmi esistenziali dell'uomo. Nel postumano dell’ultimo Millennio, invece, è diventato obsoleto, limitativo, “inattuale” parlare di “uomo”.

Dunque, con postumano in questa terza accezione si intende sottolineare che sta maturando il passaggio ad un altro sistema epistemico, in cui il ruolo dell'uomo sta diventando inessenziale, come lo era quello di Dio nell'Ottocento positivista. Questo de-centramento provoca una revisione radicale dell'antropologia filosofica, della storia, dell'arte, della politica e, infine, dell'etica per il fatto che il postumano verrebbe ad esprimere non semplicemente un cambiamento di organi, ad es. una mano meccanica al posto di quella naturale, ma un vero e proprio rifiuto di tutto ciò che è umano.

Per meglio chiarire il significato e l’ambito filosofico di applicazione delle teorie post-umaniste, dirò che queste genericamente intendono opporsi ad un altrettanto generica teoria “umanista”, che pretende di difendere un umano riferendosi ad un preciso concetto di natura umana, solitamente definita come l’insieme di caratteristiche che contraddistinguono l’uomo e che egli possiede per natura, indipendentemente dallo sviluppo della cultura a cui appartiene.

Di tutte e tre le accezioni, è sicuramente la prima ad impensierire maggiormente i sostenitori della teoria umanista e che pone nuove sfide all’etica. Nel lontano gennaio del 1983, il quotidiano Time stupisce i suoi lettori incoronando uomo dell’anno appena trascorso una macchina: il computer! In un altrettanto classico libro di Hans Moravec, l’autore pensa che sia possibile a breve scaricare la coscienza umana in un computer[7]. Per illustrare questa tesi, Moravec immagina uno scenario in cui un robot opera una specie di “liposuzione mentale”, leggendo le informazioni al livello di ogni molecola per trasferirle poi in un computer. Alla fine dell’operazione, la cavità del cranio è vuota e il suo possessore, ora impiantato nel corpo metallico di un computer, possiede la consapevolezza di se stesso esattamente come prima. Seguendo questa linea, che ormai viene ritenuta percorribile dalle attuali neuroscienze e neurorobotica, i prodromi del post-umano sono rintracciabili già nel 1949, quando Claude Shannon e Warren Weaver pubblicano un libro nel quale l’informazione è definita come entità matematica indipendente dal substrato materiale che la trasporta, rendendo possibile lo sviluppo dell’intelligenza artificiale di tipo funzionalistico, cioè orientata alla costruzione riduzionistica di modelli computazionali della mente umana (IA)[8]. Per l’IA, infatti, una macchina intelligente deve essere in grado di simulare il comportamento umano.  Proprio su questi presupposti (focalizzati sulla corrispondenza parziale di esiti osservabili) si basa, ad esempio, il celebre test di Alan M. Turing, che ha fondato l’IA come campo disciplinare: se la mente è soltanto informazione (configurazione di bit), deve essere possibile trasportarla indifferentemente da un supporto materiale all’altro. Di qui è scaturito il sogno di trasferire la mente umana in un computer. Il fatto non scandalizza perché già Norbert Wiener, uno dei fondatori della cibernetica, prevedeva nel 1950 la possibilità teorica di trasmettere un essere umano per telegrafo. La suggestiva ipotesi è stata poi ripresa, a livello di fantascienza, con lo stupefacente effetto del “teletrasporto”.

La proposta di Moravec piace molto ai post-umanisti poiché consente di mettere l’individuo al riparo dal disfacimento della morte, aprendolo all’immortalità. Con questa affascinante prospettiva, il post-umano scivola velocemente nel trans-umano. La dottrina che ne è alla base può essere così riassunta: “Transhumanism, like all other human aspirations, is shaped by our evolved brains, yet at the same time, it is an effort to escape from evolved constraints. Transhumanism has much in common with spiritual aspirations to transcend animal nature for deathlessness, superhuman abilities, and superior insight, though transhumanists pursue these goals through technology rather than (or at least not solely) through spiritual exercises”[9]. Il termine transhuman (forma abbreviata per transitional human) fu coniato nel 1966 dal futurologo Fereidoun M. Esfandiary, che più tardi cambiò il proprio nome in FM-2030 nel suo libro del 1989, Are You a Transhuman?[10]. I trans-umanisti prevedono la trasformazione dell’umanità in trans- e post-umanità tramite lo sviluppo di biotecnologie e nano-tecnologie e considerano la specie umana come il primo gradino di una nuova era evoluzionistica post-darwiniana guidata dalla specie umana (de)-privata della sua componente corporea biologica limitativa. Ciò comporterebbe il lasciarsi alle spalle il limite legato alla dimensione biologica, limite a cui è legata, come sappiamo, una minorità esistenziale, cognitiva, psicologica. Del resto, potersi liberare della determinazione sensibile, spazio-temporale, per evitare così una conoscenza condannata ad essere sempre e solo rappresentativa (kantianamente fenomenica), per cancellare la sofferenza (forse anche la morte) e la schiavitù dalle passioni, è il sogno di tutti!

Ma allora il post-umano è pensato solo per rafforzare l’umano? Oppure la vera finalità del postumano è piuttosto il transumano, vale a dire un’altra forma di pensare l’elisir dell’immortalità? Ma l’essere di-sumanizzato sarebbe un bene o un male peggiore per questo nuovo essere? Un essere dis-incarnato biologicamente ma incarnato meccanicamente sarebbe più intelligente, più libero e più felice? E ciò quando avverrebbe, ossia come e quando è possibile tracciare la linea di separazione tra umano e post-umano? Infine, se l’Uomo è presente al suo “funerale”, come può “Egli” essere morto?

Nella situazione che abbiamo delineato, il post-umano (e il trans-umano) sembra coltivare aspirazioni superomistiche, alla cui base teorica vi è il dualismo cartesiano. Ma, se così fosse, paradossalmente, tale presupposto potrebbe fare da supporto sia a posizioni umaniste sia a posizioni post-umaniste, a seconda che si privilegi la res cogitans oppure la res extensa[11].

 

3. Il post-umano e la tecnica secondo Heidegger

Secondo i sostenitori dell’umanesimo, nel post-umano l’uomo si approssima sempre di più ai prodotti della tecnologia e dunque alle cose, cioè si disumanizza e si “cosalizza”. Un significativo sostegno in questa direzione è loro offerto da M. Heidegger.

A suo avviso, è la tecnica a condurre ad una condizione post-umana. Nel famoso saggio La questione della tecnica, egli individua l’essenza della tecnica nella produzione di artefatti[12]. In questo senso la tecnica diviene creazione dell’artificiale, ma non viene demonizzata come in certe posizione ultra filo-umanistiche, bensì viene trattata come ulteriore forma di disvelamento e dunque di verità. La produzione artificiale, infatti, ponendo in essere un nuovo ente da parte dell’uomo e cioè portando un nascosto alla disvelatezza, si colloca tra i modi del disvelamento e dunque nell'ambito della verità. Tuttavia, la tecnica moderna si pone di fronte alla natura con un atteggiamento di provocazione con il suo carattere marcatamente industriale passando da una cultura economica tradizionale a una che concepisce la natura in termini di sfruttamento. La natura diviene una riserva di materiali da impiegare (Bestellen), che vengono ridotti a “fondo”, risorsa” (Bestand).

In questo processo è coinvolto anche l’uomo, passando così da artefice dello sfruttamento a vittima “destinale” di questa stessa sua azione. L’uomo contemporaneo, infatti, non riesce più a esercitare un controllo sulla tecnica e diventa egli stesso Bestand. È indotto a trattare il reale come “fondo”, e cioè come risorsa consumabile, come una sorta di carburante che cede energia e lo fa attraverso un atto di imposizione sulla materia. Heidegger è così preoccupato che la tecnica moderna sia fuori controllo, non tanto per opposizione all’ideologia positivista del progresso (come certi movimenti ecologisti  o di difesa delle culture tradizionali sembrano fare), quanto piuttosto per la consapevolezza dell’illusorietà del potere umano sul reale, un reale che invece lo vede preda succube di un qualcosa che lo governa. Questo è per lui il passaggio dell’umano al post-umano, nella misura in cui l’uomo è “destinato” a divenire mero “fondo” sfruttabile.

Tuttavia Heidegger diviene più esplicito un saggio degli anni ‘50 dal titolo Alienazione dell'uomo nell'era atomica. Qui si confronta ancora più da vicino con le implicazioni postumane della riflessione sulla tecnica. Egli affronta il tema dell'enorme potenziale distruttivo dell'atomica da una parte e della possibilità di generazione artificiale dell'uomo per opera della bio-tecnologia dall'altra. Distingue tra “pensiero calcolante”, proprio della tecnica, e “pensiero meditante”, proprio della riflessione. Il pensiero calcolante è ristretto alle finalità, mentre il pensiero meditante ha un carattere complessivo, per cui è l'unico realmente degno di essere chiamato tale, tanto da ritenere che il pericolo dell'affermazione del pensiero calcolante come pensiero unico sia più grave dell'autodistruzione dell'uomo tramite l'atomica[13].

L’istinto è la facoltà in cui il pensiero è ridotto a calcolo e pianificazione, e il lavoro è ridotto a prestazione. L'istinto è concepito da Heidegger come situazione tipica del “post-umano” (lui dice “sovrumano”) e del “sub-umano”. L’uomo quindi tramite il solo pensiero calcolante è ridotto a post-umano, che equivale a sub-umano. In questa condizione egli è avvicinato all’animale, dal momento che, così come l’animale non ha un vero mondo perché è assorbito dal rapporto con il suo ambiente (è chiuso, non ha la possibilità di sperimentarlo in una condizione di apertura), anche l’uomo nel pensiero strumentale sviluppato dalla tecnica risulta condizionato e non è apertura. Il pensiero calcolante è equivalente all’istinto proprio perché è completamente ridotto all'esercizio della sua funzione, che porta l'esserci ad essere assorbito in qualcosa che non gli si apre come mondo (Welt), ma lo condiziona come ambiente (Umwelt). Per questo motivo, nei termini heideggeriani, la condizione essenziale del post-umano non è diversa dal quella del sub-umano; la differenza sta semplicemente nel tipo di ambiente e nel grado di complessità delle prestazioni. L'ambiente del postumano è infatti l'artificiale, in quanto contesto di produzione di enti e di sfruttamento del fondo. Nel postumano le prestazioni non sono semplici risposte a stimoli biologici, ma sofisticate procedure che però riescono ad prevalere sulla fondamentale apertura dell'esserci all'essere, riducendo l'esistente ad essente, a cosa, fondo, oggetto di im-posizione e, quindi, di sfruttamento. 

Il rimedio sta dunque nell’abbandono delle cose e del potere della tecnica per reintrodurre la possibilità di scelta che restituisce al post-uomo una condizione di trascendenza rispetto agli enti, dove la stessa tecnica viene riportata al suo orizzonte nuovamente mondano in cui non si presenta più come necessità indiscutibile, ma come problema o addirittura enigma. Tuttavia, nella tarda maturità, Heidegger ritiene che né il singolo né la politica possono riappropriarsi del mondo[14].

Abbiamo perciò un doppio significato dell'atteggiamento di Heidegger riguardo a ciò che possiamo chiamare postumano. Da una parte, il postumano è la condizione epocale di perdita dell'umanità dell'uomo a causa del declino del pensiero meditante in favore di quello calcolante, e dall'altra parte, è una concezione che si pone come acquisizione di una centralità filosofica non umana, non soggettiva e non politica.

Quale possibilità resta aperta in seguito allo sfondamento dell'orizzonte della soggettività e della libera volontà umana? Il ritorno al sacro? Heidegger, se parla di sacro, si riferisce al più ad un dio non più personale, personalizzazione e sussunzione metafisica di tutto l'essere in un unico ente. Il dio a cui allude Heidegger è un divino post-metafisico che si gioca tra presenza e assenza e tra manifestazione e nascondimento, un non-dio che è l'unico che può resistere allo strapotere della tecnoscienza e riaprire lo spazio per l'azione ontologica dell'esserci.

In conclusione, le osservazioni critiche indirizzate da Heidegger alla tecnica, che hanno prodotto negli ultimi anni una demonizzazione di quest'ultima da parte di molti suoi interpreti, non riguardano la tecnica in quanto tale, ma una dimensione della stessa, il suo uso distorto, che deriva dal mancato contributo del pensiero riflessivo, dal condizionamento del sistema economico di tipo capitalistico e dalla logica dell’economia industriale.

Il carattere poietico della tecnica quindi non è solo quello di creare enti, ma anche quello di creare mondo. Com'è stato possibile allora che a un certo punto la tecnica abbia smesso di creare mondo e abbia cominciato a divorarlo? Forse perché oggi la tecnica non lavora più per il Dasein ma per qualcos’altro, ossia per il mercato, che fagocita e rende inattiva persino la politica, dove nessun governo e nessuna istituzione è in grado di opporsi[15]. L’uomo di conseguenza diviene funzionale al mercato, che costringe la tecnica a rivolgersi all'uomo come “fondo” o “materiale umano”, divenendo per l'uomo divoratrice di mondo e non più creatrice.

Il post-umano è qui il risultato della progressiva ed esclusiva affermazione della res extensa e della riduzione dell’uomo a “macchina”.

 

  1. La naturalità dell’artificio

Data l’impossibilità di stabilire una netta separazione tra naturale e artificiale e  quindi di giungere ad un’univoca individuazione di essenza o natura umana, ci sono autori che hanno messo in luce l’aspetto naturalmente artificiale dell’umano. Tra questi ricordo P. Teilhard de Chardin, H. Jonas, M. Merleau-Ponty e P. Lévy, i quali mettono in evidenza un postumano non disumanizzante. Prendo l’avvio proprio da quest’ultimo.

Proponendo quasi una storia dell’esperienza umana della tecnica, nel libro Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie Pierre Lévy si chiede retoricamente: “Le tecniche vengono forse da un altro pianeta, il mondo delle macchine, freddo, privo di emozioni, estraneo a ogni significato e valore umano, come una certa tradizione di pensiero tende a suggerire? […] Mi sembra, al contrario, che non solo le tecniche siano immaginate, realizzate e reinterpretate nell’uso da parte degli uomini, ma che anzi sia proprio l’utilizzazione intensiva degli utensili a costituire l’umanità in quanto tale”, o meglio a contribuire al suo costituirsi come noi la conosciamo in maniera determinante. In sintesi: “Il mondo umano è per definizione tecnico”.[16] Così l’umanità dell’uomo si dispiega attraverso l’architettura che lo ripara e lo accoglie; attraverso la ruota e la navigazione che gli apre nuovi orizzonti; attraverso la scrittura, la pittura, il telefono e il cinema che lo permeano di significato. In altre parole, l’uomo non sarebbe quello che è senza tutto ciò che è artificio. Inoltre la tecnologia gli ha permesso di rappresentare in maniera analogica la realtà, in modo da ottenere rappresentazioni che gli aprono nuovi spazi cognitivi di interazione tra soggetto e oggetto.

Interessante il contributo di Pierre Teilhard de Chardin, secondo cui l’uomo è una tappa di un’evoluzione verso la maggiore complessità-coscienza che coinvolge l’intero cosmo. Per questa ragione è stato guardato con molta simpatia da post-umanisti e trans-umanisti[17]. Nella prospettiva teilhardiana di evoluzione cosmica verso una sempre maggiore complessità-coscienza, l’uomo appare come un essere a tre dimensioni: una biologica, una psicologica e una spirituale, cui corrispondono tre passi evolutivi dell’uomo: l’Io individuale (la persona), l’Io collettivo (un cervello di cervelli o Noosfera) e l’Io spirituale (un oltre-uomo sempre più indipendente dai condizionamenti fisici). Nell’uomo queste tre dimensioni coesistono e cooperano, tanto da consentirgli di superare il significato monodico, statico e a-temporale di individuo-persona. La condizione post-umana viene elaborata nel concetto di Noosfera, per indicare l'insieme degli elementi autocoscienti della Biosfera, una realtà collettiva vastissima[18].

Con l’Uomo si è formato uno stato evolutivo nuovo. La vita nella specie umana si prolunga infatti in direzione di un “organismo” planetario in quanto i mezzi di collegamento e di informazione creano un vero e proprio “sistema nervoso” dell'Umanità, che prosegue il lavoro dell'evoluzione biologica. Le diverse coscienze tendono così ad unificarsi, formando la Noosfera o sfera riflessa, un vero e proprio organismo superiore unico, tanto citato dai post-umanisti.

La Noosfera rispetta le leggi della vita: progressi per salti, nascita di idee e di gruppi per differenziazione, avvicendamento dei gruppi. In altre parole: i fenomeni colti nei singoli organismi viventi si ripresentano anche nel corpo sociale, che rappresenta dunque un vero e proprio organismo. Della Noosfera si potrà in tal modo individuare anche una sua propria struttura, la cui anatomia rivela l’esistenza di[19]:

- un apparato ereditario, formato dalla memoria collettiva dell’umanità, trasmessa di generazione in generazione, attraverso la vita sociale e l’attività educativa;

- un apparato meccanico, in quanto gli strumenti meccanici costruiti dall’uomo costituiscono il prolungamento “biologico” delle sue capacità di azione;

- un apparato cerebrale, che non è però dato dalla semplice somma delle singole autocoscienze, ma dalla loro reciproca interazione, amplificata dalla tecnica.

La Noosfera diventa pertanto un vero e proprio organismo biologico, espressione dell’evoluzione esosomatica. Ecco qui un’altra grandissima differenza con l’impostazione neo-darwiniana: l’evoluzione non riguarda più solo il genotipo e un singolo individuo, ma investe la dimensione dello spirito (o energia radiale) e la formazione di un organismo collettivo.

Per Teilhard con il sociale, il processo di evoluzione biologica prosegue, subendo un'ulteriore metamorfosi, tanto che l'artificiale prolunga e si sostituisce al naturale: “La tecnica ha un ruolo biologico propriamente detto: entra in pieno diritto nel naturale. Da questo punto di vista [...] svanisce l'opposizione tra artificiale e naturale, tra tecnica e vita, perché tutti gli organismi sono il risultato di invenzioni; se una differenza esiste, è in favore dell'artificiale”[20].

Teilhard non è il solo a evidenziare la peculiarità dell'evoluzione culturale umana. Ricordiamo che questa posizione ha anche altri importanti sostenitori nel corso del Novecento. Maurice Merleau-Ponty nella sua Fenomenologia della percezione afferma, ad esempio, che nell'uomo non si può dividere un naturale e un culturale, ma il simbolico si sovrappone al biologico, ciò che è appreso si confonde con ciò che è innato: la cosa più naturale, nell'uomo, è il non esserlo mai del tutto[21]. Analogamente, H. Jonas a questo proposito scrive: “Dotato di una doppia libertà, corporea e spirituale, l'uomo compie il suo percorso estendendo nel mondo naturale il suo mondo artificiale che è il prodotto di questa libertà. Ciò è voluto dalla sua propria natura e deve pertanto essere tollerato dalla natura restante”[22]

Nel pensiero post- e trans-umanista, questa supremazia dell'artificiale, finalizzata al trasferimento della mente umana ad una macchina pensante (uploading), è invece auspicata per raggiungere l'immortalità, attraverso una liberazione dal corpo, considerato nella sua finitezza, imperfezione e malattia. È una filosofia del post-organico, della liberazione dal corpo, presuppone un dualismo tra psiche e soma, ed esaspera la dimensione conoscitiva simbolico-razionale: grazie alla tecno-scienza, l'uomo raggiungerà uno stadio paradisiaco libero dalla caducità corporale.

Questa è, per i transumanisti, l’evoluzione postumana ma, a mio parere, è una visione ancora “umana, troppo umana”. Ecco alcuni possibili rischi. Per i trasumanasti, innanzitutto, la tecnica soverchia l'uomo, il quale rischia di venirne travolto: la scienza e la tecnologia non sono più un mezzo per migliorare la condizione umana, ma diventano in se stesse un fine. Non sono più espressione della progressiva centrazione-personalizzazione, come per Teilhard, ma estrema perdita del sé.

In secondo luogo, la filosofia transumanista, nella sua critica alla religione in generale, intende diventare essa stessa una religione postmoderna, rimpiazzando l'idea di provvidenza con quella di progresso, in grado di garantire l'immortalità attraverso la tecnica, assolutizzando la psiche intesa come semplice processo di informazione. In terzo luogo, l'immortalità di cui parlano i transumanisti non è una vera e propria immortalità in grado di soddisfarci. Infatti essa è configurabile come infinita temporalità, cosicché i limiti della finitezza non verranno mai superati.

 

      5. Il post dell’umano

Secondo il post-umanesimo, l’umano non è un valore, un’essenza, un fine in sé, ma il risultato mobile e transeunte di una pluralità di processi. Collocandosi all’interno di una filosofia della temporalità, secondo i post-umanisti è possibile desacralizzare l’umano (che l’umanesimo ha voluto sostituire al divino), ma il rischio è quello di intronizzare il suo Altro[23].

E come non chiedersi se gli uomini, anche se semi-dei in base alle rosee prospettive post-umaniste, non continueranno ad essere infelici, tra guerre, sfruttamenti, ingiustizie, carestie, catastrofi naturali e cataclismi artificiali? Ci potremmo trovare a vivere ben al di là dell’età oggi immaginabile, magari invocando la morte rinchiusi in un corpo di silicio. Oppure ci potrebbe capitare di trovarci di fronte a uno scenario simile al Mondo nuovo di Huxley, una tirannia gentile in cui tutti sono sani e felici, ma nessuno ricorda il significato di parole come speranza, paura o lotta per la libertà.

Cercando di sfuggire alla morte biologica, di fatto il post-umano innalza l’umano a culto e idolo di se stesso, conservandone tuttavia pregi e difetti, limiti e possibilità. Sembra infatti che i post-umanisti non riescano ad abbandonare, al di là delle loro affermazioni, il riferimento all’umano, dal momento che espandono le prerogative del soggetto in un non meglio definito regno del post-umano, dove l’uomo perde tutti i suoi limiti fisici e acquisisce solo i vantaggi di non avere un corpo biologico, ma le cui caratteristiche restano ancora quelle legate al trascendentalismo del logos. Il paradosso post-umanista sembra essere quello per cui il “morto”, l’uomo, è presente al suo funerale!

Per questo, la promessa post-umanista di rimuovere la malattia e persino la morte, se è in un certo modo giustificabile sul piano psicologico, essendo comprensibile l’istinto vitale e l’inclinazione a conservare la vita, diventa sempre più espressione dell’illusione dell’uomo moderno e postmoderno, dominato dall’impulso di onnipotenza, che non vuole riconoscere limiti, e per questo è disposto a rimanere schiavo del mercato dell’eterna giovinezza.

Forse però si è in grado di fare un discorso sul post-umano un po’ diverso, aperto e capace di recuperare un ruolo all’uomo nella e grazie alla rivalutazione dell’artificiale che la scienza contribuisce a sviluppare, che poi è il discorso iniziale sostenuto anche da Heidegger. Questo in  considerazione anche del fatto che l’odierna antropologia filosofica, da Kant a Gehlen, da Plessner a Teilhard de Chardin, considera l’uomo nella sua sostanziale datità storica: l’uomo non “è”, ma “diviene” – un evento fatto di eventi, ovvero, secondo la nota espressione di Fichte, un uomo “fatto tra gli uomini uomo”.

In questo senso, il nuovo umanesimo non dovrebbe seguire la schematica contrapposizione natura e cultura, ma riconoscere l’uomo come un essere per natura artificiale, ossia simbolico e culturale. La distinzione tra naturale e artificiale risulta in altre parole stantia: l’uomo è allo stesso tempo natura e artificio, sia da un punto di vista biologico, sia filosofico. La natura stessa, infatti, pur con i suoi tempi lunghi, appare molto più storica di quanto ci rendiamo conto, sia in relazione all’evoluzione dell’Homo sapiens, sia rispetto a quella, più generale, della vita sul nostro pianeta. Secondo un approccio biologista, non esiste un DNA umano “eterno” e immodificabile (cioè non culturale), o eternamente (cioè gerarchicamente) separato da quello animale. Inoltre, la distinzione tra natura e artificio viene sempre colta all’interno di una cultura: non esiste una natura umana indipendente dalla sua cultura. Natura e artificio sono “astrazioni” che si danno nel concreto che è la cultura. La cultura è la natura propria dell’uomo. L’uomo, più di qualsiasi altro animale, è predisposto a vivere come essere culturale, sia per la sua condizione deficitaria rispetto all’animale, sia per la sua vocazione trasformatrice, presente già nella capacità manipolativa della mano.

Per queste ragioni, biologiche e filosofiche, la tecnica diviene il proprium dell’uomo; la sua natura è colta nell’agire, nell’azione, che è naturalmente tecnica[24]. L’uomo viene visto come “biologicamente portato all’azione” (alla modifica ragionata del dato naturale) e come un essere “costruttore di mondi”. In questa prospettiva, quindi, “natura” non va intesa in senso statico, ma come l’esito di un telos normativo aperto alla relazione con il sé e con il contesto[25]. Inserendo l’umano all’interno di una visione evolutiva, il concetto di natura intesa come qualcosa di fisso e immutabile lascia lo spazio ad una nozione di essere umano in relazione alla sua dimensione biologico-sociale-culturale in cui la sua natura è quella di essere “artificiale per natura”. In altre parole, l’uomo è portato all’ibridazione sia dal punto di vista biologico – in quanto filogeneticamente è un essere molto portato alla cura – sia filosoficamente, in quanto i predicati umani si fondano nella relazione con l’altro. Egli tende a realizzare la propria identità attraverso le esternalizzazioni e l’antropodecentramento. La natura umana è antropopoietica, e la techné diventa un aiuto, anche se non va a colmare una carenza a priori, dal momento che la carenza scaturisce dalla creazione del bisogno indotto dalla tecnica. Qui si rovescia l’ideale baconiano e la conoscenza crea dei bisogni e non potere. L’uomo non è un’entità solipsistica e in questo senso è stato da sempre post-umano.

La novità è che oggi si parla apertamente di questa condizione, l’uomo però è stato da sempre artificiale[26]. La discussione sulla natura umana quindi si dirama intorno a due fuochi: necessità di riferirsi a qualcosa che permane e che, nel permanere, accomuna; e attestazione della mutevolezza (sia in relazione allo spazio sia al tempo) delle espressioni individuali di umanità che si declinano liberamente nella conformità o difformità rispetto a condizioni già date (nella natura). In questo senso la natura è la base normativa senza la quale la differenziazione individuale non sarebbe possibile; è l’insieme delle funzioni condivise con la specie nel riferimento a se stessi e agli altri.

Già Husserl nel secondo libro delle Idee individua quattro stratificazioni dell’essere, e l’uomo le possiede tutte e quattro, anche se per una definizione di natura umana occorre prendere in considerazione la proprietà dell’autopercezione[27]. Ora l’uomo è innanzitutto specie, poi se stesso come soggettività. Attraverso l’autopercezione, la soggettività si afferma come autofondamento, ma esperimenta anche la sua mancanza ontologica, dal momento che si scopre come essere già dato.

Per questo ciò che deve ancora essere indagato nel post-umano è il concetto di persona come essere in relazione, dal momento che l’identità umana ha bisogno di ciò che R. Marchesini chiama “contributo referenziale delle alterità”, dove referenziale “è qualunque processo che per potersi esprimere ed evolvere ha bisogno di appoggiarsi su un ente esterno (referente) ovvero che richiede contributi esterni (referenze) per far emergere i predicati e che pertanto non può ascrivere i propri predicati a contenuti autarchici o, ancora, che non è in grado di dar conto dei propri predicati attraverso una semplice ricognizione interna. Quando analizziamo il processo identitario non possiamo fare a meno di evidenziare la sua stretta natura referenziale, dove pertanto anche il confronto va valutato in senso referenziale. Le alterità, secondo questa prospettiva, sono indispensabili per capire proprio quei predicati a cui si appella l'identità, cioè le presunte qualità distintive, giacché, se l'evoluzione identitaria è sviluppo referenziato, essi vanno considerati come frutto di processi di integrazione. Non è possibile quindi parlare di identità senza fare riferimento alla dialettica con l’alterità”[28].

Superando l’antropocentrismo e sostenendo un’idea dialogica dell’io, l’umanesimo rinnovato può dirsi post-umanesimo. Ma anche un certo tipo di post-umanesimo deve rimodellarsi, soprattutto per il riferimento, del tutto mitico, alla salvezza per mezzo della tecnologia, inattuale riproposizione del super-uomo nietzscheano: santificando una sorta di decadenza strutturale e comportamentale dell’uomo nel “pre”, nasconde a malapena un “troppo” umano nel “post”, divenendo un’ambigua orgia di umanesimo moderno.

Grazie ai vari mezzi di comunicazione, ormai si parla sempre più di net-work identity, ossia di identità estesa, in relazione inter e trans-soggettiva, una sorta di “intelligenza collettiva” distribuita ovunque e in continuo accrescimento. Si parla di identità che si “costruisce nel tempo”. Si fa riferimento alla dignità della persona non per custodire un’essenza, ma per consentire a tutti di autodeterminare la propria vita. È sempre più in crescita una filosofia che prospetta un mediato attraverso una rete culturale, sociale, economico-politica e antropologica sempre più estesa.

Orbene, se diventa ragionevole la messa in discussione di un’idea a priori di umano (un’essenza immutabile), la peculiarità creatrice che scaturisce dalla sua auto-coscienza suggella la diversità dell’uomo dal resto della natura[29].

 

A conclusione, si può dire che:

1. L’uomo è, nella sua natura, un soggetto creatore, non solo fabbricante il mondo esterno, ma anche creatore di se stesso, in grado di trascendere i limiti della sua natura.

2. Se è vero che il post-umano si dà filosoficamente solo in relazione a un concetto di umano, esso risulta essere una riproposta del classico tema natura/cultura. Tuttavia, per “umano” non è più possibile intendere ciò che è logicamente deducibile da un concetto immutabile di “natura” – dato da una generalizzazione empirica alquanto opinabile e opinata – quanto piuttosto l’esito di un telos normativo che implica un riferimento dinamico, e non statico, all’essere.

3. L’attuale dibattito sul post-umano è, in realtà, un’ennesima ri-definizione o ri-collocazione della natura e del ruolo dell’umano all’interno del contesto sociale e naturale tipico della post-modernità, in cui gli schemi categoriali di riferimento risultano per molti aspetti obsoleti rispetto alle nuove sfide della scienza e della tecnica.

4. I difensori più accaniti del post-umano non riescono ad uscire dal trascendentalismo secondo cui si vuole superare l’uomo attraverso l’uomo stesso. Parafrasando Sartre, ne deriva che il postumanesimo è un umanesimo.

 

Se si tengono in considerazione tutti questi aspetti, anche senza scomodare i post-umanisti, l’aporetica questione del “fantasma nella macchina”, la contrapposizione natura/cultura, il paradosso umano/post-umano, è destinata a dissolversi nella misura in cui si riconosce che l’uomo affonda le sue radici nell’infra e si proietta nell’oltre. Forse, a questo punto, scopriremo che siamo stati da sempre post-umani!

 

[1] Pubblicato con il titolo  Umano e postumano. Una questione di definizioni?, in A. Pieretti (a cura di), Il tramonto dell’umano? La sfida delle nuove tecnologie, Morlacchi Ed., Perugia 2016, pp. 111-128.

[2] Silvana Procacci, Hans Jonas: confrontarsi con la finitezza. Natura, etica e storia nel silenzio di Dio, Morlacchi Editore, Perugia 2012; Id, Darwin, Teilhard e i nuovi traguardi evolutivi, in S. Leone (ed.), L'uomo artificiale. Problemi filosofici, etici, antropologici e religiosi della roboetica, Il Platano di Ippocrate, Palermo 2009.

[3] Donna Haraway, Simians, Cyborg, and Women: The Reinventation of Nature¸ Free Association Books, London 1991; Roberto Terrosi, La filosofia del postumano, Costa&Nolan, Milano 1997; N. Katherine Hayles, How We Became Posthuman: Virtual Bodies in Cybernetics, Literature, and Informatics, University of Chicago Press, Chicago 1999; Ubaldo Fadini, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale, Mimesis, Milano 1999; Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002; Id, L’identità del cane, Apeiron, Bologna 2004; Id., Il tramonto dell’uomo: la prospettiva post-umanista, Edizioni Dedalo, Bari 2009; Neil Badmington, Theorizing Posthumanism, “Cultural Critique”, n. 53, 2003, pp. 10-27; Giuseppe O. Longo, Il simbionte: prove di umanità futura, Meltemi, Roma, 2003; Harold W. Baillie; Timothy K. Casey (eds.), Is Human Nature Obsolete? Genetics, Bioengineering, and the Future of the Human Condition, Mit Press, Massachusetts 2004; Mario Pireddu, Antonio Tursi, Post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, Guerini e Associati, Milano 2006; Pietro Barcellona; Tommaso Garufi, Il furto dell’anima. La narrazione post-umana, Dedalo Edizioni, Bari 2008; Cristian Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopolitica, Mimesis, Milano, 2010; Fabiana Gambardella, L'animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano, Mimesis, Milano, 2010; Michele Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011; Maurizio Ferraris, Anima e Ipad, Guanda, Parma 2011; Nunzia Bonifati; Giuseppe O. Longo, Homo immortalis, una vita quasi infinita, Springer Verlag, Milano 2012; Paolo Benanti,               The Cyborg: Corpo e corporeità nell’epoca del Post-umano, Cittadella, Assisi 2012.

[4] Cfr. Antonio Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, Teoria, Roma-Napoli 1985. Robot deriva dal ceco “robota” e significa “lavoratore forzato”.

[5] Nick Bostrom, A History of Transhumanist Thought, “Journal of evolution and technology”, Vol. 14, Issue 1, 2005, pp. 1-30. Ad esempio Rosi Braidotti ha proposto un fondamentale collegamento tra l’orizzonte postumano e le soggettività nomadiche, sottolineando in tale prospettiva la necessità di un’etica post-umanista della sostenibilità (cfr. Metamorphoses. Towards a Matherialistic Theory of Becoming, Polity Press, Cambridge 2002)

[6] È significativo il fatto che, in antitesi all’antropocentrismo dell’arte rinascimentale, si sia sviluppato un ricco movimento artistico post-umanista: cfr. al riguardo Mario Perniola, Il sex appeal dell'inorganico, Einaudi, Torino 1994; Mario Costa, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma 1998; Teresa Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan,  Milano 1996. Qualcosa di analogo è avvenuto in ambito cinematografico dove moltissimi sono i film dedicati a temi tra la fantascienza e il transumanesimo. Cito, a titolo di esempio, il film di Sandro Aguilar Uprise, del 2009, che può essere considerato un film sperimentale post-umano. Per una critica all’antropocentrismo in ambito ecologico rimando a Fabio Caporali, Silvana Procacci, Aurelio Rizzacasa, Eco-Etica. Una nuova filosofia per il mondo di domani, Morlacchi Ed., Perugia 2012.

[7] Cfr. Hans Moravec, Mind Children: The Future of Robot and Human Intelligence, Harvard University Press, Cambridge 1988.

[8] Claude E. Shannon; Warren Weaver, The Mathematical Theory of Communication, University of Illinois Press, Urbana 1949; La teoria matematica delle comunicazioni, tr. it.,, Etas, Milano 1971.

[9] James Hughes; Nick Bostrom; Jonathan D. Moreno, Human vs. Posthuman, “The Hastings Center Report”, Vol. 37, No. 5 (Sep. - Oct.), 2007, pp. 4: Il transumanesimo, come tutte le altre aspirazioni umane, è modellato dai nostri cervelli evoluti, ma allo stesso tempo, si tratta di un tentativo di fuggire da questi stessi vincoli. Il transumanesimo ha molto in comune con le aspirazioni spirituali di trascendere la natura animale per l’immortalità, le abilità sovrumane, e l'intuizione superiore, anche se i transumanisti perseguono questi obiettivi attraverso la tecnologia, piuttosto che (o almeno non solo) attraverso esercizi spirituali (tr. nostra). Si veda anche Raymond Kurzweil; Terry Grossman, Fantastic Voyage: Live Long Enough to Live Forever, Rodale Books, New York 2004. Nel mondo sono attivi vari gruppi di orientamento transumanista, tra cui l’Extropy Institute, fondato nel 1992 da Max More, e la World Transhumanist Association (WTA), fondata nel 1997 da Nick Bostrom e David Pearce.

[10] FM-2030, Are you a Transhuman? Warnerbooks, London 1989.

[11] Per Hayles, ad esempio, le concezioni cibernetiche e tecno-ottimistiche non escono dalla dualità corpo-mente della tradizione razionalistica occidentale, anzi la ripropongono come trascendenza tecnologica. Per questo suggerisce una differente visione del postumano che non indichi la fine dell’umano, bensì la fine del soggetto umanistico liberale. Come post-umanista sui generis, Hayles difende la corporeità dell’umano, sostenendo che la specificità dell’embodiment rende diversa la coscienza umana dall’intelligenza trasferibile nelle macchine e propone un ripensamento dell’articolazione dell’umano con le macchine intelligenti che tenga nella dovuta considerazione lo stato ineludibile della corporeità.

[12] Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di Gianni Vattimo, tr. it., Mursia, Milano 1985; si cfr. anche Id., Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna, in Id., Che cosa significa pensare?, a cura di Gianni Vattimo, tr. it., Sugarco, Milano 1988; Id., Filosofia e cibernetica, a cura di Adriano Fabris, tr. it., E.T.S., Pisa 1988.

[13] Con l'atomica, infatti, la distruzione dell'uomo sarebbe ontica (riguarderebbe cioè gli uomini in quanto enti) mentre tramite la distruzione del pensiero si giungerebbe alla distruzione ontologica dell'uomo (e quindi della sua possibilità di porsi come Dasein).

[14] Di questa via di salvezza umanistica Heidegger stesso sembra non essere più convinto quando, negli ultimi anni della sua vita, sostiene che ormai solo un dio ci può salvare. Poiché la libera volontà dei singoli o la loro espressione coniugata nella politica diventano ininfluenti, la soluzione può essere solo impersonale così come impersonale è il problema. Per questo motivo egli sostiene l'impotenza del filosofo, che si può solo limitare a suggerire una disposizione di accogliente attesa e dunque di passività.

[15] Infatti nessuna classe politica e ceto dirigente può ottenere il consenso mancando del benessere derivante da un certo tipo di sviluppo economico e dunque la politica rimane schiava del sistema economico.

[16] Pierre Lévy, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 25-27.

[17] Cfr. Eric Steinhart, Teilhard de Chardin and Transhumanism, in “Journal of evolution & Technology”, 20 (1) – December 2008, pp. 1-22.

[18] Pierre Teilhard de Chardin, L’ominizzazione. Introduzione ad uno studio scientifico del fenomeno umano, in La visione del passato, tr. it., Jaca Book, Milano 2016; Id., Il fenomeno umano, in La Scienza di fronte a Cristo, tr. it., Il Segno dei Gabrielli, Verona 2002, uno scritto del 1928, che anticipa l'opera fondamentale Il Fenomeno umano, tr. it., Queriniana, Brescia 1995. Sotto questo aspetto, le scienze umane dovrebbero essere il prolungamento delle scienze naturali.

[19] Per questa descrizione mi rifaccio a quanto sintetizzato da Fabio Mantovani nell’articolo “Noosfera”, in www.biosferanoosfera.it

[20] Pierre Teilhard de Chardin, Verso la convergenza. L’attivazione dell’energia nell’umanità, tr. it., Il Segno dei Gabrielli, Verona 2004, p. 75.

[21] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1972.

[22] Hans Jonas, Scienza come esperienza personale, tr. it., Morcelliana, Brescia 1992, p. 39.

[23] Cfr. Andrea Vaccaro, L’ultimo esorcismo. Filosofie dell’immortalità terrena, Edizioni Dehoniane, Bologna 2009.

[24] Come del resto sostiene Arnold Gehlen (L’uomo nell’era della tecnica, tr. it., Armando, Roma 2003) o lo stesso Umberto Galimberti (Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999), il quale risolve la cultura nella tecnica. Cfr. anche Heinrich Popitz, Der Aufbruch zur Gesellschaft, Mohr, Tübingen 1995, tr. it., Verso una società artificiale, Editori Riuniti, Roma 1996.

[25] È solo entro la cultura che diventa possibile stabilire dei riferimenti assiologici e normativi. Tra gli aspetti etici vi è quello della necessità di riferirsi ad una nozione di identità che, seppure si costruisce nel tempo e implica la difesa della dignità della persona non per custodire un’essenza, ma per preservare la possibilità di autodeterminazione della vita. Non è una deriva individualista, ma il modo più importante per difendere l’umano (ma anche del post-umano) e impedire la sua strumentalizzazione da parte dei poteri politici e economici.

[26] Cfr. Mario G. Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Epoque, Einaudi, Torino 1990; Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il corpo nell’era del post-umano, Mimesis Edizioni, Milano 2011; Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa & Nolan, Milano 1997; Antonio Baronia, Il Cyborg: saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano 2001; Nunzia Bonifati, Et voilà i robot. Etica ed estetica nell’era delle macchine, Springer Verlag, Berlino 2010; Franco Berardi, Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine Millennio, Costa & Nolan, Milano 1994.

[27] Cfr. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr. it., Einaudi, Torino 2002.

[28] Roberto Marchesini, Predicati umani e referenze non umane, in “La Ricerca Folklorica”, No. 54, 2006, pp. 107-114. Si vedano anche Ignazio Sanna  (a cura di), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005, Antonio Spadaro e la sua cyberteologia: http://www.cyberteologia.it

[29] David Roden, Posthuman Life: Philosophy at the Edge of the Human, Routledge, London & New York 2015, il quale sostiene che il post-umano è costruito umanamente e pensato umanamente, pertanto sarà sempre in riferimento all’umano (in particolare pp. 36-45).

 

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