Partecipare all'azione creatrice divina per incarnare nella storia la Parola di Dio

Nando Bacchi

Partecipare all’azione creatrice divina per incarnare nella storia la Parola di Dio[1]

 

 

Nando Bacchi, nato a Boretto (RE) nel 1928, già Preside di Scuola Media. Laureato in Pedagogia presso l'Università Cattolica di Milano, esperto di ecumenismo e dialogo interreligioso; autore di articoli e diversi saggi, tra cui Scuola e cittadinanza. Funzione pubblica e libertà di apprendimento oltre la tormentata questione scuola privata-scuola statale, Il Segno dei Gabrielli editori, Verona 2003; è membro del Comitato editoriale e del Gruppo redazionale della rivista Uni-versum, già Futuro dell'uomo.    

 

Perché un nuovo paradigma teologico

Il conoscere cosa Dio comunica all’uomo dipende dal come Dio comunica con l’uomo. L’intelligenza (intus legere) della rivelazione passa per di qui. Passa per come si intende il rapporto Dio-Mondo. K. Barth direbbe: come Dio tocca il mondo.

Dato questo presupposto, inizio a motivare il perché, in ambito cristiano, va abbandonato il tradizionale paradigma teologico statico per assumere il paradigma teologico dinamico-evolutivo. Il ché comporta una revisione dei cardini tradizionali della teologia fondamentale, cioè della creazione e della rivelazione.

Il paradigma statico segue, come è noto, questo schema: Dio, dall’alto della sua trascendenza duale, crea prima il mondo ex nihilo sui et subiecti, poi, dopo il peccato originale, interviene direttamente e miracolosamente per comunicare ad Abramo, Mosè e profeti le vie della salvezza, definitivamente rivelate da Gesù Cristo Redentore poi tramandate dalla Chiesa.

É uno schema antropomorfico che va aggiornato. E va aggiornato per più ragioni.

Anzitutto, perché non tiene conto dell’evoluzionismo generale, cioè della cosmogenesi, biogenesi, antropogenesi e dell’inedito, che lo sviluppo tecnico-scientifico lascia trapelare. Un evoluzionismo generale il quale dimostra che la creazione è continua, che non è finita. Poi, c’è il particolare evoluzionismo biologico-antropologico che rende difficile credere in uno stato di “santità e di giustizia originali”, uno stato che si sarebbe perduto col peccato dei nostri progenitori.

In secondo luogo, il paradigma statico non regge di fronte al sempre più stringente pluralismo religioso. I “semina Verbi”, addotti dalla Tradizione, non sono sufficienti ad eliminare l’impensabilità di una azione elettiva compiuta e distribuita nel tempo dall’Uno Eterno Amore. Dio è l’eternità dell’essere che dona tutto a tutti da sempre e che non si svolge nel tempo. Siamo noi creature che Lo cogliamo a frammenti nel tempo.

Infine, il paradigma statico sembra non prendere in seria considerazione l’indicazione di buona parte della filosofia e della teologia moderna e postmoderna secondo cui – come scrive don C. Molari – “l’uomo è in grado di recepire messaggi divini solo quando sono ridotti a formule umane, e queste non possono che nascere da esperienze storiche”[2].

 

Creazione e Rivelazione in unitaria evoluzione

Le suddette obiezioni al paradigma statico trovano, invece, una risposta risolutiva nell’Evoluzione creatrice intuita e lucidamente sostenuta dallo scienziato e teologo francese Teilhard de Chardin. Senza la pretesa di fare su questo argomento una ermeneutica a senso unico del Concilio Vaticano II, si può senz’altro dire che anche i padri conciliari hanno preso coscienza che “il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine ad una concezione più dinamica ed evolutiva”. E, nello stesso tempo, hanno avvertito che “ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e sintesi nuove” (Gaudium et spes 5).

Confortato da questa attestazione conciliare, torno alla Evoluzione creatrice del gesuita francese che ha dato origine al paradigma dinamico.

Il principio chiave di detta Evoluzione è il seguente:

 

DIO NON FA LE COSE

MA FA CHE ESSE SI FACCIANO

 

Da questo principio deriva che creare non vuol dire produrre dal nulla le cose ma vuol dire essenzialmente costituire nell’interno l’essere e l’agire delle cose. E ciò facendo attenzione a distinguere che la fonte dell’azione creatrice, cioè Dio, è trascendente, mentre la Sua azione è immanente e in modo trascendentale. Siamo al pan-en-teismo da non confondere con panteismo. Cioè, tutto è in Dio ma tutto non è Dio. Siamo lontani dal Deus sive natura di Spinoza o dagli immanentismi idealista, positivista od altro ancora.

Dal suddetto principio-chiave, inoltre, si ricavano, alcuni precisi concetti che sintetizzo così:

* per evoluzione (o trasformazione) creatrice deve intendersi che l’azione divina (cioè, il diffusivum sui dell’Uno Eterno Essere Amore) costituisce nell’interno le cose ma che le cose si realizzano, evolvendosi, nella misura in cui accolgono, nello spazio e nel tempo, detta azione seguendo la legge naturale della complessità-coscienza;

* l’accoglienza umana (o esperienza religiosa) che si srotola nella storia disvela Dio, per cui la storia intera (in gestis verbisque, si legge nella Dei Verbum 2) può dirsi la manifestazione o l’epifania di Dio[3];

* di conseguenza si ha che creazione e rivelazione sono due facce della stessa medaglia. Non prima la creazione poi la rivelazione, iniziata con il Vecchio Testamento e conclusa con il Nuovo. La Parola di Dio è, ad un tempo, Parola creatrice, Parola rivelatrice e Parola salvatrice. E per di più è Parola sempre in corso nella storia (dal cosiddetto big-bang all’éscaton).

 

Caratteri specifici della rivelazione evolutiva

Assodati questi concetti, proseguo ora facendo una libera lettura dei principali caratteri specifici dell’azione divina (o forza arcana, come la chiama il testo conciliare Nostra Aetate 2). E ciò guardando maggiormente al lato rivelativo e andando anche qui per punti sintetici.

Anzitutto, l’azione di Dio deve vedersi immanente e con valenza trascendentale. In altre parole, Dio agisce nel mondo non dal di fuori (du dehors) e, per intenderci, non da marionettista, bensì dal di dentro (du dedans) ma, ancora per intenderci, non da burattinaio. Questa interiorità del divino condizionato dall’accoglienza creaturale è tale da concretizzarsi in un rapporto di circolarità e non in un rapporto di vicinanza concorrente, quasi fosse una gara a mo’ di partita a scacchi. Dio, pertanto, non può essere visto come una causa tra le altre cause che agiscono nel mondo. Viene quindi cancellata l’immagine di un Dio onnipotente Superman o Grande Artigiano che dall’alto della sua trascendenza interviene direttamente e a piacimento nel mondo, sia trasmettendo la sua parola sia governando provvidenzialmente la salvezza dell’uomo o, addirittura, predestinando la salvezza o meno della singola persona. Viene pure esclusa l’idea di un Dio demiurgo, ingegnere e artefice dell’evoluzione dell’universo o degli universi (Disegno intelligente). Al contrario, sono le cause naturali (quelle umane comprese), e talvolta il caso, a condurre l’evoluzione del creato, a togliere a frammenti il velo dal volto di Dio, a tessere o meno la salvezza personale e a caratterizzare, civili o barbare, le civiltà.

La presupposizione di un intervento diretto di Dio nel mondo (diretto per dire intervento miracoloso esterno dalla creatura) è sempre stata e continua in buona parte a mostrare di essere il motivo caratterizzante il fenomeno religioso[4]. Il paradigma dinamico, invece, esclude tale presupposizione. Anzi, da semplice recettrice di una comunicazione esterna proveniente da Dio, la creatura si configura partecipe e condizionatrice dell’azione divina. L’uomo nella storia si fa attore indispensabile e, in un certo senso, direi co-protagonista dell’epifania di Dio, mentre Dio, pur restandone l’Eterno Essere fondante, si fa l’attrattore finale non il governatore temporale della salvezza. La parola divina si presenta, di conseguenza, gratuita, sommessa e silenziosa. Però, nel potere dell’impotenza (kénosis) il volto dell’Eterno risplende più grande e più misteriosamente divino, come in realtà è: Mysterium tremendum et fascinans. Nessuno conosce Dio in se stesso[5].

Di importanza pari alla immanenza trascendentale e gratuita risulta essere la universalità della parola divina. In quest’ottica si cancella l’immagine di un Dio che nutre preferenze per persone e popoli. Non possiamo non chiederci se è mai possibile che l’Eterno Amore faccia preferenze, che abbia stabilito quale è la “terra dei beati” da cui far partire la salvezza del mondo. È preferibile, penso, credere in Dio quale “luce che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9). Insomma, tutte le religioni sono vere. Vere sì ma, e questo è ciò di cui non si può non prendere atto, non uguali. Rimane perciò chiaro: se tra le diverse religioni esiste una asimmetria, questa non è per volontà di Dio bensì per la diversità delle accoglienze creaturali della Sua interiore azione. In sostanza, profeti e popoli eletti non si è fatti per scelta divina ma ci si fa accogliendo in modo eletto l’azione creatrice che ci costituisce. E aggiungo, senza questa condizione condivisa in partenza, ogni dialogo interreligioso si riduce, quando va bene, ad amichevoli chiacchiere di buon vicinato. Ogni parte, invece, deve vedere nell’altra, come afferma R. Panikkar, una fonte di rivelazione[6].

 

Sacre Scritture, Cristologia e sguardo sul futuro

Ora, premesso che tra la fiducia esistenziale nel Deus revelans (fides qua) e i contenuti del Deus revelatus (fides quae) corre una considerevole differenza, accenno velocemente ad alcuni importanti temi derivanti dal concetto di rivelazione come sopra definito.

Anzitutto, alcune parole sul valore delle Sacre scritture, da intendere non come comunicazione miracolosa da parte di Dio bensì da intendere come particolare esperienza religiosa della più universale esperienza religiosa. “Le Sacre Scritture sono Parola di Dio in senso analogico. Quindi, - aggiunge Don C. Molari - i termini Parola e Spirito, che abitualmente si usano, sono da intendere  come appartenenza ad una avventura umana vitale quale immersione in un oceano di energia che ci attraversa e in noi diventa pensiero, amore, decisione, silenzio”[7].

Meriterebbe, inoltre, un ampio approfondimento la centralità e singolarità di Gesù Cristo salvatore, ad ogni modo non escludente e nemmeno includente, al fine della salvezza, le altre religioni in quanto, data l’universalità dell’azione rivelatrice divina, tutte convergono direttamente verso l’unico Dio.

Dovrei, inoltre, soffermarmi sulla chiamata ad una inedita epifania divina che definisco nei termini espressi dal nuovo direttore di Civiltà cattolica A. Spadaro, il quale così scrive: “… sono i teologi – da Tommaso d’Aquino a Teilhard de Chardin – che mi hanno illuminato sulle forze che rendono l’uomo attivo nel mondo, partecipando alla creazione, e che sollevano l’uomo verso una meta che lo supera, ben al di là di ogni surplus cognitivo”[8]. Un super-umano, mi pare di poter aggiungere, che vede lo spirito elevarsi, ovviamente nei tempi profondi della storia, ad immagine più somigliante a Dio. Evento creativo da maturare con coraggio evitando, come è spesso avvenuto, di fare Dio ad immagine e somiglianza dell’uomo.

 

L’amore come via alla verità

Mancando il tempo per approfondire questi argomenti, mi avvio alla conclusione non senza accennare alla relatività del Vero da incanalare verso l’Uno sui sentieri dell’amore.

Con relatività del vero intendo dire che non esistono assoluti terrestri, bensì che si affermano differenti verità, sia dottrinali sia morali, che guidano positivamente l’esistenza umana nella storia se confessate in responsabile libertà di coscienza. Vale a dire che esistono verità da considerarsi in termini non di aut-aut ma di et-et.

Per evitare la caduta nel relativismo nichilista va comunque affermato che la relatività del Vero, deve essere posta dentro il primato dell’ortoprassi dell’amore sulla ortodossia (“Non chi dice Signore, Signore ma…”). La via che incarna le verità esistenziali è l’amore (Veritas in caritate e non viceversa), poiché Dio è essenzialmente Amore-Relazione (Deus caritas est) prima che Verità. Pertanto, non sono i fondamentalismi di ogni tipo e nemmeno i custodi di ogni presunta ortodossia ma è l’amore concreto che custodisce le parziali verità umane. È l’amore, che abita anche oltre la fragilità della creatura e che incarna l’essenza della sua sorgente divina, a tenere saldamente convergenti le tremolanti tracce di luce umana verso l’unica Luce eterna. Non siamo all’ama et fac quod vis banalmente interpretato, ma al vivere coerente nell’amore quale custode della Verità ultima che ognuno va cercando.

E per finire, proprio perchè è la forza di cui ogni essere è costituto, l’amore chiede in primis all’uomo di essere fatto fiorire con l’”amorizzare il mondo” (diffusa espressione teilhardiana), superando il potere e il denaro in testa, frenando la corsa ad aumentare la percentuale del P.I.L. soffocante solidarietà ed ambiente, nonché fuggendo la tentazione di rifugiarsi tra vecchi idoli e inutili paure.

 Articolo pubblicato su Teilhard aujourd'hui 13 (ottobre 2013)

 

[1] Intervento al  3° Seminario di Uni-versum – Per una intelligenza della rivelazione nel terzo millennio. Reggio Emilia,  27 ottobre 2012

[2] Carlo Molari, Lo Spirito Santo e l’ispirazione delle scritture extra-bibliche, in Manderò il mio Spirito su tutti, Atti della XXXI Sezione del S.A.E. (La Mendola – Trento 1933, p. 297).

[3] Vedere in proposito l’intero paragrafo “La rivelazione” in Carlo Molari, La fede professata, Paoline Milano 1996, pp. 29-32.

[4] Nel concetto tradizionale “la religione - scrive Andrés Torres Queiruga - è la presa di coscienza della presenza del divino nel mondo. Ma il divino appare sempre come un dato trascendente, come ciò che ‘a partire da se stesso’ arriva all’uomo  e gli si mostra. Per questo l’uomo non si sente mai il creatore di tale esperienza, ma il suo recettore” (in La rivelazione di Dio nella realizzazione dell’uomo, Borla, Torino 1991, p. 21).

[5] Ai bordi del Mistero è facile ricamare parole altisonanti e farne addirittura dei dogmi. Ma il Mistero ci attende, speriamo, nella sua luce per essere conosciuto totalmente. Nel nostro esistere temporale (recante inesorabilmente in sé la coscienza del limite entro cui si agitano forti i sensi del male, della colpa e della morte), il Mistero rimane sempre, agostinianamente, come l’acqua dell’oceano che non può essere travasata in una buca scavata sulla spiaggia.                

[6] Raimon Panikkar, L’altro come esperienza di rivelazione, Società cooperativa editoriale l’altra pagina, Perugia, 2008.

[7] Carlo Molari, Manderò il mio Spirito su tutti, op. cit., pag. 313. Aggiungo: in ogni esperienza religiosa accanto al linguaggio logico o concettuale si rende inevitabile usare più estensivamente e più consapevolmente il linguaggio simbolico. All’uopo, mi pare sia opportuno l’appello del benedettino francese Ghislain Lafont riguardante il reimpiego del linguaggio simbolico. Nella nostra civiltà fondata sul primato del “logico” (l’intellegibile, il ragionevole) - scrive il benedettino – “è venuto il momento non già, come si dice oggi, ‘di cambiare paradigma’, ma di introdurre un altro paradigma e di integrarvi i nostri. L’ipotesi, condivisa da molti e che faccio mia, è che l’epoca attuale ci inviti a reintrodurre il linguaggio simbolico, vale a dire il primato del legame nella struttura e nella vita del reale, nel desiderio e nel sapere umani. Reintrodurre, e non introdurre, perché le cosiddette società primitive avevano già, nei loro linguaggi e nelle loro strutture, l’intuizione vissuta di una reciprocità universale” (in Che cosa possiamo sperare?, EDB, Bologna 2011, p. 11).

[8] Antonio Spadaro, Cyberteologia, Pensare il cristianesimo al tempo della rete, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 12.

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