L'Ambiente Divino: scienza, poesia, storia umana

Pier Giuseppe Pasero

L’Ambiente Divino: scienza, poesia, storia umana[1]

Pier Giuseppe Pasero (* 14 marzo 1957) ha compiuto la sua formazione nel Seminario Diocesano di Fossano (CN), coronando il periodo collegiale con gli studi in Teologia. Dal 1983 insegna Religione al Liceo Classico “Massimo D’Azeglio” di Torino.

 

1.   Un intreccio dialettico

Quando la coscienza umana si destava per la prima volta lungo il cammino evolutivo dell’Universo, dapprima alla realtà che la circondava e poi a se stessa, lo spazio-tempo in cui si trovava e che un giorno avrebbe chiamato “Durata” ed “Ambiente Divino” era già il frutto di un movimento dall’estensione impensabile. Un movimento che l’ha preceduta e che silenziosamente l’ha preparata, aperto all’indietro verso un prima e in avanti verso un dopo.

Solo molto recentemente, fra queste due polarità spazio-temporali, la coscienza ha iniziato a intravedere una linea in salita, dovuta al fatto che le due polarità si caratterizzano per avere natura dinamica: l’una, perché lancio verso un futuro interamente da costruire, l’altra, perché accoglienza graduale e finale di tutte le forze capaci di mettere in atto la salita. Scoperta strepitosa. Intanto la coscienza s’è trovata davanti al compito fantasioso ed arduo di ridisegnare se stessa, di ricostruire più significativamente il rapporto con l’ambiente da cui costantemente emerge, di riproporsi in nuova forma e con nuova forza sulla linea tesa fra i due fronti, infine di ripensare con chiavi di lettura inedite - allora e ancora tuttora! - una più credibile identità delle sue curvature, dei suoi piani e delle sue direzioni di tendenza.

Piovono così un’infinità di dubbi su certe forme di conoscenza e di fede del passato confinate in sistemi chiusi, mentre proprio quella pioggia fa fiorire un’infinità di punti interrogativi capaci di provocare subbugli, ma per sollevare la coscienza, per chiamarla a nuovi campi di battaglia, costituenti i grandi ed entusiasmanti fronti del suo cammino in progresso. Fra questi occupano certamente un primato:

a) Il fronte della conoscenza che converge sui traguardi della scienza contemporanea per diramarsi e convergere a sua volta su una conoscenza più alta perché frutto di una suprema sintesi.

b) Il fronte della poesia come forza della vita che da un sentire ed esperire gli abissi e le altezze del tutto cosmico, intuendone il triplice infinito in piccolezza, grandezza e complessità, si fa gesto sacro, atto di fede, forma e suono verbale, preghiera esclusiva, nonché principio di relazione tra gli esseri coscienti.

c) Il fronte della storia umana come guglia dell’Evoluzione cosmica soprattutto dal momento in cui la coscienza, preso atto dell’Uno-Tutto cui appartiene, orienta l’agire dell’uomo verso un progresso che, se per definizione in negativo significa lotta contro la dispersione del reale nel molteplice, in accezione positiva comporta il lasciarsi illuminare da un luce proveniente dal futuro.

Questi tre fronti compaiono simultanei e co-spaziali nella realtà effettiva. Solo l’ineludibile sequenza di un discorso li mantiene separati, sebbene confinanti in linea contigua. Sul loro intreccio, invece, si può tentare di comprendere meglio il rapporto dialettico tra “l’Ambiente Divino” e la “dimensione evolutiva dell’Umano”.

Se le due espressioni sulle quali sta formulato il titolo dell’attuale Convegno venissero interscambiate, probabilmente nella trama del discorso verrebbero spostati alcuni elementi contingenti, ma l’affresco nel suo insieme restituirebbe, tutto sommato, una forma analoga e i colori sarebbero i medesimi. “L’incontro con l’Ambiente Divino attraverso la dimensione evolutiva dell’Umano”, infatti, ritrova specularmente una prospettiva di pari significato nella “dimensione evolutiva dell’Umano attraverso l’incontro con l’Ambiente Divino”. A maggior ragione se l’autore di riferimento si chiama Teilhard de Chardin, i capisaldi della cui Weltanschauung si riassumono in un’immagine da lui stesso indicata, quella di un cono che al vertice è convergenza di tutte le linee, mentre alla base è partenza delle stesse per dirigersi all’Unicum che rappresenta anche l’Unum. Ma non essendo l’Ambiente Divino un puro risultato, bensì un dato di movimento evolutivo, ed essendo a sua volta l’Umano nella sua dimensione evolutiva un dato dell’Ambiente Divino, ne scaturisce una co-implicanza e per certi versi una pari necessità. Non una necessità deterministica, ma una necessità di significato: un Ambiente Divino senza la dimensione evolutiva dell’Umano non giungerebbe neppure ad essere percepito, mentre una dimensione evolutiva dell’Umano non potrebbe darsi senza fondamento nell’Ambiente Divino quale suo principio causale e finale.

Si tratta ora di illustrare, sviluppare e ponderare più a fondo le premesse avanzate, realizzandone l’intreccio. In che modo nel pensiero e nella testimonianza esperienziale di Teilhard si collegano scienza, poesia e storia umana? Ma soprattutto - e dovrà essere il responso finale - in che modo in ognuno di questi singoli passaggi si fa presente o in qualche modo si riflette l’intero movimento, che in ogni sua parte è Ambiente Divino e dimensione evolutiva, con al vertice quell’Umano che diviene il Cristico?

 

2.   Il fronte della conoscenza e del suo traguardo come scienza

Probabilmente le opere strettamente o esclusivamente scientifiche del celebre padre gesuita hanno fatto il loro tempo, pur continuando ad essere oggetto di interesse da parte di alcuni esperti. Resta tuttavia importante, per il loro tramite ed oltre il loro tramite, aver affermato lo spirito della scienza quale stadio ineludibile della coscienza, ma in un vortice di movimenti che catapultano la coscienza, da risultato dell’Evoluzione, a principio attivo di una “Santa Evoluzione”, ad un contempo sua continuazione e suo potenziamento.

In relazione all’ambito scientifico resterà imperituro per tutti gli studiosi di Teilhard, nel presente e in avvenire, uno dei suoi capolavori, ossia il libro che ha per titolo Le Phénomène humain. Esso non intende proporsi né in qualità di “opera di metafisica”, né di “saggio teologico”, quanto di “memoria scientifica”, guidata dal motto: “Anzitutto, solo il fenomeno. (…) Ma anche tutto il fenomeno”[2]. Un motto programmatico che suggerisce collegamenti o dipendenze dalla via fenomenologica battuta nel XX secolo da numerosi filosofi, con Edmund Husserl in veste di precursore e fondatore.

Teilhard intende però ampliare il concetto di fenomenologia, oltrepassandone l’uso angusto dei contemporanei, come risulta dalle righe di una sua lettera: “Riconosco che la mia fenomenologia non è quella di Husserl, né quella di Merleau-Ponty. (…) I fenomenologi (…) sembrano ignorare una delle dimensioni essenziali del Fenomeno, che non consiste soltanto nell’essere percepito da una coscienza individuale, ma di far conoscere (in più e nello stesso tempo) a questa coscienza particolare che essa si trova inclusa in un processo universale di “noogenesi”. Non capisco come ci si possa chiamare “fenomenologi” e scrivere interi libri senza citare, senza nemmeno nominare, la Cosmogenesi e l’Evoluzione”[3].

Il tentativo dell’impianto fenomenologico della conoscenza ha come parola d’ordine il ritorno alle cose stesse, effettuando una liberazione dalla verbosità dei filosofi e dai loro sistemi. Sono invece necessari dati indubitabili, evidenze stabili, poiché solo a partire da lì potrà essere fondato un modo autentico di pensare. Nelle Ricerche logiche Husserl afferma che “senza evidenza non vi è scienza”, mentre in Essere e tempo Martin Heidegger precisa che “l’espressione “fenomenologia” significa anzitutto un concetto di metodo”. Da questo punto di vista essa cerca di realizzare, esprimendoci in estrema in sintesi, l’apprezzabilissima opera di una “purificazione dello sguardo”. L’intento di un ritorno “verso il concreto” mira a lasciarsi alle spalle sia ogni dogmatismo positivistico, sia ogni apriorismo idealistico. Ma anche un serie di persuasioni filosofiche pregiudiziali e la stessa fiducia “religiosa” nella scienza intrinseca allo spirito del positivismo. Epoché! Ovvero sospensione del giudizio riguardo tutto ciò che non si presenta in modo apodittico e incontrovertibile.

A sua volta il percorso dell’epoché trova un punto di approdo immediatamente evidente nell’esistenza della coscienza, il cosiddetto “residuo fenomenologico”, secondo la denominazione husserliana. Ne deriva che la fenomenologia non si colloca all’insegna di una scienza delle cose o dei fatti, ma di una scienza delle essenze, nel senso di descrizione dei modi tipici grazie a cui cose e fatti si presentano alla coscienza, giungendo così a idee universali oltre i fatti particolari.

Orbene, proprio lo sguardo, la visione, e più dinamicamente ancora il “vedere”, fungono da fonte energetica per la stesura di Le Phénomène humain con il graduale emergere del suo contenuto. Una prospettiva che Teilhard preannuncia già nel Prologo dell’opera: “Vedere. Si potrebbe dire che, in questa parola, è racchiusa tutta la vita, nella sua essenza almeno, se non nella sua finalità. Essere di più è unirsi di più. (…) Ma l’unità cresce solo se è sorretta da un accrescimento di coscienza, vale a dire di visione. Ecco probabilmente perché la storia del mondo vivente si riduce all’elaborazione di occhi sempre più perfetti in seno ad un cosmo in cui è possibile discernere sempre meglio e sempre maggiormente”[4].

Teilhard cerca con costanza il punto di partenza di ogni riflessione sul terreno dei fatti, su ciò che possiede la caratteristica del tangibile e del fotografabile, quindi di quanto è scientificamente rilevabile e misurabile, che, se non corrisponde a tutto ciò che esiste, indubitabilmente corrisponde a ciò che unicamente esiste sotto lo sguardo dello scienziato. Qui risiede il primato del guardare il reale rispetto all’indagarlo costruendo sistemi. Ma lo sguardo è sguardo della coscienza, dello spirito. E l’uomo di fatto è sintesi di materia organizzata presso la quale, e in forza della sua suprema complessificazione, appare la coscienza.

Sulla base di queste radicali convinzioni Teilhard precisa ed affina sempre più, cammin facendo, il metodo del suo cercare e del suo pensare, pur restando una questione di fondo e per lui irrinunciabile riconciliare fede cristiana e dati della scienza. Una proposta e un progetto straordinari che, al di là di ogni limite, ne rendono l’artefice un autore di avanguardia. Un uomo che qualunque credente dovrebbe sentire appartenente al proprio tempo, come pure ai tempi futuri. E non per ripetere quanto Teilhard ha detto, ma per instaurare la problematica da lui intravista e descritta in una ricerca adeguata all’attualità del tempo in cui il credente vive e dà forma alla sua fede.

Sappiamo che di fatto non è così. Sappiamo che nel suo tempo Teilhard fu messo su più versanti ai margini, che post mortem venne da alcuni accostato con entusiasmo e da altri con debita circospezione, per essere infine, e purtroppo anche nel tempo attuale, dimenticato dai più. Eppure la sua riscoperta da parte di uomini di buona volontà si dimostra proprio oggi in grado di farne rifiorire il pensiero, di alimentarlo con nuova linfa e di estrarne le potenzialità rimaste ancora latenti.

Emarginato, sospettato, dimenticato: destino che fu cruciale per un uomo che si pose davanti all’Universo nel ruolo di scienziato e di pensatore ad un contempo. Ma guardando a quel destino quale un dato di fatto e cercando di scrutarlo con occhio fenomenologico, ce ne si chiede la ragione. E la domanda ricade sull’opera stessa dell’autore in causa. Quale evidenza, quale obiettività raggiunge davvero Teilhard nel suo grandioso intento?

Nel percorso fenomenologico fondato sul motto “solo il fenomeno, tutto il fenomeno”, in relazione alla prima parte del motto egli si attiene ai fatti e all’esperienza, senza mettere mai in gioco le risposte della Rivelazione, che pure dentro di sé già avverte in coerenza con i dati della scienza. Circa il secondo elemento del motto, invece, “tutto il fenomeno significa tutto ciò che si manifesta nello Spazio-Tempo. Non soltanto il fisico-chimico ed il biologico, il quantitativo, il misurabile, ma anche lo psichico, lo spirituale, la coscienza. Perché la coscienza viene designata epifenomeno e il fisico-chimico ed il biologico viene chiamato fenomeno? Perché affermare, esplicitamente o implicitamente, che la riflessione - la quale costituisce la specificità dell’uomo - è un accidente della natura o un errore dell’evoluzione? Consideriamo il mondo come si manifesta, senza a priori, senza privilegiare lo spirito più che la materia, né la materia più che lo spirito. Lo spirito fa parte del nostro mondo al pari della materia. Nel nostro universo c’è un’energia fisica che si misura, ma c’è anche un’energia psichica, la quale, per il fatto di non essere misurabile, non è meno reale”[5].

Oggi si potrebbe andare al di là delle ultime affermazioni, dati i progressi della scienza sulla sempre più alta misurabilità dell’energia psichica in termini chimici e fisici, benché ancor lungo resti il cammino da compiere. Un fatto che darebbe ulteriormente ragione alle tesi di Teilhard sull’incontestabilità fattuale dello psichico-spirituale. Che è quanto basta ai fini del nostro discorso. Tuttavia la misurabilità dell’energia psichica, con l’identità dell’oggetto considerato, analizzato e restituito, resta altro dal fenomeno spirituale inteso come sintesi da parte di Teilhard. Qui egli opera un salto, si fa critico nei confronti delle scienze, si distanzia dagli scienziati che intendono essere puri scienziati. E di conseguenza i puri scienziati si allontanano da Teilhard.

La grande fiducia da lui riposta nello spirito della scienza, se da un lato lo rende sospetto in ambienti che temono di misurarsi con i risultati sconvolgenti delle scienze, dall’altro lo porta ad essere giudicato e respinto per un eccessivo ottimismo. Ma nei confronti della scienza quale ultima filiazione della storia della conoscenza, Teilhard non è solo ottimista - qualche volta davvero in modo esagerato e fuori dal corso che la storia attuale sta mostrando se, contro la sua prospettiva e la sua Weltanschauung, si guardano solo i dati di fatto dimenticandone le potenzialità totali e il loro assurgere a dati orientabili dalla coscienza. Egli è soprattutto lucidamente valutativo ed offre in proposito due considerazioni fondamentali.

Anzitutto, il processo analitico della scienza, sviscerando il fenomeno fino a ritrovarne le ultime componenti, finisce di veder distrutti la cosa o il fatto che indaga: l’intero di una data realtà, e più ancora l’intero del reale dentro cui appare ogni data realtà, si dileguano allo sguardo. Analoga osservazione, in secondo luogo, si può avanzare circa la specializzazione dei saperi: il frammentarsi della scienza in molteplici ramificazioni finisce per sbarrare le vie ad una loro reciproca comunicazione. Di uno stesso oggetto, scienziati di diverse branche restituiscono porzioni non sempre armonizzabili, comunque mai l’intero. Quando per di più la scienza, soprattutto in dati frangenti, vive sospesa tra ipotesi e teorie, non sempre si danno accordi di carattere “scientifico” addirittura all’interno di una medesima branca.

Potrà allora restituire un sapere superiore alla scienza ciò che proprio la scienza non riesce a restituire? Probabilmente no, ma questa critica della scienza dovrebbe spingerla ad una maggiore umiltà e a lasciare aperte altre vie.

Affascinato dalla scienza, che attraverso l’analisi compiuta dall’uomo su un qualsiasi oggetto ne mostra già prima la realizzazione in qualità di sintesi, Teilhard ribadisce con ogni forza la sua originale intuizione, che potremmo definire ad un contempo fenomenologica (secondo il significato corrente nella storia della filosofia) e sovra-fenomenologica (secondo la tipica accezione teilhardiana): il significato completo di un oggetto risulta dal suo rapporto con il Tutto. Non l’aggregato di cose e di fatti, ma solo la Totalità organica restituisce verità. In essa ogni elemento si costituisce strutturalmente in rapporto ad altri elementi e la contemporaneità rimane collegata all’antecedenza, come pure l’antecedenza si proiettava verso la contemporaneità. Se ne deduce che anche il presente possiede una forza futurizzante e che la sintesi è realtà in fieri. Il Tutto non è statico. È piuttosto un’immensa processualità dinamica.

Un panorama impressionante spicca da questa linea di cresta. Rivolti in basso, già i versanti che pendono da essa mostrano la complessità di ciò che sorregge il poter camminare a simile altitudine. Ma, lassù giunti perché innalzati, inducono a guardare ancora avanti per scorgere ulteriori altezze. Teilhard radica il concetto stesso di conoscenza del fenomeno in una realtà ben più vasta e più complessa dello spazio-tempo in cui il fenomeno si trova inserito ed è osservato. Se la Totalità non è riducibile alla somma dei particolari che la scienza indaga, neppure lo spazio-tempo quale flusso continuo cadrà sotto lo stesso concetto di spazio-tempo dentro il quale la scienza, a motivo del suo metodo analitico, confina i processi trasformandoli in cose ed oggetti. Allora lo spazio-tempo trapassa in “durata”. Che cosa significa?

“Ciò che permette di definire e di classificare un uomo come “moderno” (…) è l’essere divenuto capace di vedere, non solo nello spazio, non solo nel tempo, ma nella durata, o, in altri termini, nello spazio-tempo biologico; ed è per di più il sentirsi incapace di vedere in modo diverso una qualsiasi cosa, a cominciare da se stesso”. “Le fibre della cosmogenesi chiedono di prolungarsi in noi, ben oltre la carne e le ossa, per insuperabili ragioni di omogeneità e di coerenza. No, nella corrente vitale, non è soltanto l’involucro materiale del nostro essere che si trova sballottato e trascinato. Ma, simile a un fluido sottile, lo spazio-tempo, dopo aver sommerso i nostri corpi, penetra sin nella nostra anima. La riempie. L’impregna. S’inserisce nelle sue potenze, al punto che ben presto essa non sa più come distinguerlo dai propri pensieri. (…) Perché quel flusso è unicamente definibile attraverso gli accrescimenti di coscienza”. In tal modo “l’uomo scopre, per usare la forte espressione di Julian Huxley, di non essere altra cosa se non l’evoluzione divenuta cosciente di se stessa...”[6].

Se i fisici parlano del tempo come quarta dimensione dello spazio, dal punto di vista dell’evoluzione come direzione del cosmo tale rapporto può essere invertito: “non è lo Spazio che incorpora il Tempo, bensì il Tempo che incorpora lo Spazio. (…) Spazio e Tempo si raggiungono per tessere la stoffa dell’universo. Essi costituiscono un tutto solidale e, in questo continuum, il Tempo determina la relazione tra gli esseri, ossia crea lo Spazio. Difatti il mondo parte dalla pluralità e attraverso sintesi successive sale verso l’unità. Il Tempo, “questa profondità intima degli esseri”, costituisce l’energia che costruisce lo Spazio, che lega gli esseri gli uni agli altri in modo sempre più stretto. Di conseguenza, lo Spazio diventa una sezione del Tempo: la relazione degli esseri in un dato memento della crescita dell’universo”[7].

Noogenesi emergente e comparsa della noosfera. La questione del posto dell’uomo nella natura, del suo senso nell’Universo. E dell’Universo come Ambiente Divino. La struttura evolutiva del mondo pone il mondo in uno stato di trasformazione creatrice, sì che nella durata la creazione va intesa come un atto continuo e l’evoluzione ne rappresenta la forma. Ma “una genesi viene compresa solo mediante la sua fine”[8], data attualmente dall’uomo quale stadio più alto e complesso messo in atto dall’evoluzione. Fatto che porta Teilhard a considerare di natura spirituale ciò che egli chiama, ricorrendo a un termine tedesco, Weltstoff, la “Stoffa dell’Universo”, o “Stoffa cosmica”, il multiplo tendente all’unità. Così l’elemento significativo dell’intero ed immenso processo cosmico viene a configurarsi nell’avvio verso la personalizzazione del Weltstoff, data poi come realtà umana o persona. Essa conferisce un senso al mondo in quanto lo ricapitola in sé, vi risplende come sintesi da cui promana luce sul lungo lavoro, sulle grandi fatiche, sulle enormi resistenze ed oltre ogni oscurità.

Pre-vita, Vita, Pensiero e Super-vita, le quattro grandi tappe che scandiscono la stesura del saggio a sfondo scientifico Le Phénomène humain, sono prima ancora le tappe che scandiscono la durata in quanto evoluzione. Processo lungo il quale la materia è portata a tradursi in bios, il bios a divenire homo sapiens e l’homo sapiens a farsi spirito. Infine, last but not least, lo spirito è fondamentalmente gusto di vivere, gusto dell’azione, desiderio di immortalità, per esprimerci ricorrendo ad espressioni di un autore caro a Teilhard quale fu Maurice Blondel.

Dalle considerazioni avanzate sorge l’interrogativo su che cosa significhi la parola “scienza” e il modo di fare scienza da parte di Teilhard. Il suo metodo “è originale e sconcertante: irrita gli scienziati e i filosofi, e indispone i teologi. L’opera di Teilhard non si pone in nessuna delle nostre categorie abituali: scienze esatte, filosofia, teologia. Teilhard si appoggia sui dati scientifici (i quali sono i dati scientifici del suo tempo e quindi in parte ormai superati), però non fa opera di scienza nel senso preciso come oggi noi lo intendiamo. Compie anche timide incursioni nella metafisica, ma abbandona ben presto questo terreno, perché non trova il vocabolario adatto. Teilhard non fa della teologia, comunque ricerca una coerenza tra i dati della scienza e i dati della fede. Non fa della sociologia, e pur tuttavia tenta un’interpretazione biologica del fatto sociale. Non dobbiamo quindi tentare di confinarlo per forza nell’una o nell’altra categoria. Prendiamolo com’è. Potrebbe darsi che Teilhard apra una via nuova alla comprensione dell’uomo e dell’universo”[9].

Con una certa audacia di fronte allo spirito della scienza comunemente intesa, “egli parla del “di dentro delle cose” come di una realtà scientifica. Questo “di dentro” non è però palesabile e nemmeno misurabile. Teilhard ne stabilisce l’esistenza per inferenza. È fare scienza nel senso preciso della parola? No, e tuttavia, per colui che si pone nella visione di Teilhard, il “di dentro” delle cose appare per davvero una realtà fenomenica”[10]. E se oggi quel “di dentro” viene sempre più vagliato grazie agli affinamenti della strumentazione scientifica di osservazione, il risultato offerto e conseguentemente utilizzato non si qualifica certo nella medesima valenza del fenomeno come lo intendeva Teilhard. Resta invece confinato in oggetto sezionato, escluso da una considerazione tanto dell’immensa processualità da cui emerge quanto della Totalità cui appartiene.

Di fronte alla sintesi globale operata dal pensiero teilhardiano occorre cambiare molti metri di giudizio e collocarsi in quella scia dove egli non è più lo scienziato puro che si occupa di pietre, di fossili, di ricerca di conferme sperimentali o di custodia dei musei paleontologici. Qui egli è filosofo, quantunque filosofo sui generis. Ma è la scienza che lo ha spinto a vestire l’abito del filosofo e ad esprimersi in quella filosofia. Non solo. Qui si percepisce con chiarezza che Teilhard uomo di scienza tende la mano al credente e al poeta che porta dentro di sé, figure che gli abbracciano viscere, cuore e mente. Da quel simposio scaturisce l’anima totale di Teilhard, il “sacerdote del Cosmo”[11] che sa farsi pensatore e scrittore, per rivestire infine anche i panni del teologo, non senza lo sguardo mistico di chi si sprofonda nel Tutto per vedere da quel fondo innalzarsi e dispiegarsi il Tutto. Lo scienziato-filosofo si fa contemplativo e il contemplativo sarà chiamato ad essere uomo della storia e uomo d’azione, persona nel divenire, nella dialettica e nel progresso.

 

3.   Il fronte della poesia come forza della vita

Se Teilhard si fosse limitato ad essere lo scienziato che di fatto anche fu, noi oggi non saremmo qui a parlare e a scrivere su di lui per riflettere su di noi, sul nostro tempo e sul nostro senso, e sullo stesso mondo al quale lui appartenne appena qualche anno prima dei nostri anni. Vuol dire che il messaggio consegnatoci, pur passato per un certo modo di fare scienza in una data epoca storica e per una certa estensione del concetto di scienza, continua a snodarsi da un vertice che trascende tanto la storia quanto la scienza.

Il segreto di un successo che raduna ancora gente intorno a un tavolo per discorrere delle sue opere, con l’intento di scorgere, grazie alla loro mediazione, la testimonianza di un’esperienza che ha illuminato una vita intera, e probabilmente tante anime che a quelle opere hanno attinto, risiede probabilmente in una particolare profondità del soggetto: persona in cerca di consapevolezza di sé in relazione al Tutto, dove l’io si percepisce e si riconosce scorrimento, divenire, evento da chissà donde, altro da sé e passaggio in altro. Non isolamento o separazione, ma inserimento ed appartenenza.

Questo modo di dispiegare il tempo avvertendo di appartenere al suo scorrimento e al prodigio che lo causa, magari ad una stregua analoga con cui le note musicali scorrono su un pentagramma o i suoni su una tastiera, si chiama “senso cosmico”. Fu forse il principale incentivo che ai primordi di ogni civiltà accese tra le prime grandi forme di espressione proprio la poesia. Modo di sentire che l’umanità fin da epoche remote ha consegnato in parole pregnanti, spesso attraverso scansioni melodiche per poterle incidere meglio nella memoria affinché la memoria potesse, giorno dopo giorno, scandire meglio le ore della vita.

“Poesia”. Una parola oggi tremendamente svalutata, e svalutata da più angolature, onde passa in sordina l’immensa risorsa di umanità che la nostra storia per suo tramite ha trattenuto e l’inenarrabile potenziale di nuova storia che da essa potrebbe continuare a dipanarsi.

In primo luogo la poesia ha valore di momento fondativo, modo immediato di sentire la vita e non giustificabile attraverso nessuna razionalizzazione, quantunque la ragione possa prendere la poesia, in qualità di dato, ad oggetto della propria riflessione. Il fatto è che non la può dedurre. La poesia è la voce e il canto dell’essere. Una voce e un canto che si percepiscono nel silenzio e nella delicatezza di chi sa ascoltare. Forse non è vero che oggi non c’è più poesia. Piuttosto è vero che la poesia è diventata altra cosa, un sentire che fluisce mescolato con gli assordanti rumori della società. Società che, se da un lato indaga l’universo con gli strumenti più raffinati della tecnologia e le teorie più geniali che la ragione osa elaborare, dall’altro riduce la voce e il canto dell’universo ad una registrazione da effettuare. Come chi accumula dati per averli immediatamente a disposizione, ma a forza di dedicare tempo ad accumulare dati non trova più il tempo per immergersi nei loro contenuti e riemergerne trasfigurato.

In secondo luogo la poesia ha valore in forma di parola capace di suscitare emozioni, ma emozioni comunicabili. Soprattutto da quando la poesia in forma di parola ha smesso di essere parola in cerca di forma, le composizioni in versi - o pseudoversi - hanno cominciato a dilagare. Sedicenti poeti che scrivono senza la capacità di farsi leggere ed amare. Il gusto dell’irruzione personale, momentanea, immediata, la prevaricazione dell’io sul Tutto, di un io molto attento a sé e dimentico del Tutto. Non è l’atteggiamento tenuto dai poeti che hanno fatto storia e che continuano a farla. Certo, la poesia in cerca di forma richiede impegno sia da parte di chi compone, sia da parte di chi ne usufruisce, è tutt’altro dalla filastrocca e non è necessariamente flusso di metrica e di rime. Ma sa essere canto anche quando vuol far sentire rumori e stonature.

In terzo luogo la poesia ha valore nel duplice ruolo di arte maieutica e di forza ammaestrante. Nel primo caso, la pregnanza della parola, il suono esteriore che si diffonde per l’aria e soprattutto la sua eco nell’anima possono giungere a far vibrare delle corde interiori che sono lì da sempre, ma che ancora nessuno, neppure il proprietario, ha già saputo maneggiare. Tra il suono che esplode all’esterno e la vibrazione che quel suono suscita all’interno può infatti succedere qualcosa di analogo a quel che succede quando si accordano due corde di una chitarra: portata l’una sul medesimo tono dell’altra, la seconda vibra senza essere toccata. Quanto invece alla forza ammaestrante della poesia, chi abbia l’umiltà di riconoscere che l’universo e la storia sono un’esplosione di forze di gran lunga superiori a quanto l’io possiede come germe in sé, si disporrà a lasciarsene investire non per rinuncia alla propria personalità, piuttosto per accrescerla ed instaurarla in una dimensione relazionale. Allora la poesia è forza che nell’io precede, sovrasta ed oltrepassa ogni altra forza psichica, sia di carattere sentimentale che di carattere razionale. Qui la poesia diventa spiritualità, o addirittura si fonde nella mistica.

Da ultimo va menzionato il valore della poesia quando essa si fa generatrice di bellezza e del senso della bellezza, al di là di ogni scopo immediato ed utilitario. Non importa quale sia il nome di volta in volta dato alla bellezza: sempre è qualcosa che proviene dalla luce dell’universo. Il senso della bellezza può spingersi così in alto fino a farsi gesto di preghiera. Dall’egizio “Inno ad Aton” composto sotto il regno del faraone Achenaton, all’ultimo Canto del Paradiso di Dante in cui San Bernardo innalza una lode alla “Vergine madre, figlia del tuo figlio”, ai versi di Voltaire rivolti al “Dio di tutti gli esseri”, nonché all’Inno alla Materia, alla Messa sul Mondo e alla Preghiera al Cristo sempre più grande di Teilhard de Chardin… ovunque è in atto una sosta dell’anima davanti al sublime. Certo basso razionalismo e certo basso pragmatismo irridono la poesia che inneggia al sublime e magari preferiscono issargli contro la concretezza quotidiana e l’incomprensibile tragedia della storia. Ma il poeta che ha visto bellezza e che la bellezza ha reso orante, avrà acquistato nuova forza non solo dentro l’anima in contemplazione, ma anche con le mani e con le braccia per affrontare la quotidianità ed eventualmente attraversare la tragedia.

Teilhard de Chardin è cresciuto nell’orizzonte di un’educazione cristiana ed ha interiorizzato questa fede personalizzandola fino alle midolla. Ha approfondito e specializzato il suo rapporto con la natura e con madre Terra attraverso lo studio delle Scienze Naturali. Ha attualizzato il problema ancestrale della filosofia sul rapporto tra l’Uno e il Molteplice cercando mediante una costante elaborazione del pensiero di far dialogare fede e scienza in una prospettiva unificante. Con un sacerdozio di sentita vocazione si è innalzato ad un’esperienza mistica fino a celebrare una Messa sul Mondo non solo quando si trovava in Cina “senza pane, senza vino e senza altare”, e tra scienziati per lo più agnostici o atei, ma con la sincera testimonianza di prete fedele ai voti prestati, pur dentro un’incessante ricerca umana e spirituale, con il passo proteso in avanti e lo sguardo rivolto in alto.

Dai suoi scritti traspare il segno di questa vastità panoramica contemplata ed attraversata. La parole fluiscono da ogni pagina come gocce d’acqua fresca in cui, anche a piccoli sorsi, si gusta quanto grande sia il dono dell’acqua. Ciò significa altresì che in ogni pagina si riflette quel sapore e quella luce che in definitiva solo l’intero dell’opera restituisce. Ossia: non le parti danno come somma il tutto, ma il tutto fa essere le singole parti. Motivo per cui ogni pagina cattura l’eco dell’intero. Anzi, dispiega l’intero proprio mentre lo ripiega.

La constatazione è tanto più valida quando il Teilhard credente, scienziato, pensatore, sacerdote e mistico cede alla poesia per elevarsi ai vertici del linguaggio. Qui il suo messaggio esplode con una carica senza pari. Presenza e potenza di una poesia non solo residente in alcuni stralci dei suoi scritti, come i passi poco sopra citati, ma sparsa lungo tutta la sua prosa probabilmente perché poetica è la maestosa intuizione di fondo: l’intuizione del Molteplice proteso al Punto Omega. Il linguaggio della poesia, più di ogni altro, può per un istante catturare, trattenere, manifestare una così onnipervasiva intuizione, con l’unico scopo di poterla infine liberare. E proprio nel linguaggio della poesia Teilhard ha espresso al meglio i risultati delle ricerche condotte in vari ambiti, dall’ambito della scienza all’ambito del confronto epistemologico con filosofi e teologi, lasciando confluire insieme a quei risultati la ricchezza delle esperienze compiute.

Si possono muovere numerose critiche al linguaggio di Teilhard, al suo mescolare in una stessa pagina espressioni provenienti da più fronti, quali dati scientifici ed intuizioni che sanno di misticismo, entro una prosa ondeggiante tra linearità espressiva, compiacimento in neologismi da lui stesso coniati, incisi numerosi e intrusioni parentetiche, cadute poetizzanti che a più lettori offrono una recezione stucchevole. Ma se non ci si arresta alla forma esteriore e si guarda più a fondo e più in là, proprio qui spicca, per chi sia consenziente a seguirlo, l’originalità e il fascino di Teilhard.

C’è chi ha visto in lui il “poeta del cosmo”, individuando un ruotare di immagini intorno ai quattro classici elementi e specificandoli come “Terra madre”, “Acque cosmiche”, “Aria, luogo di ascesa e di trasformazione”, “Fuoco che scende”[12]. E c’è chi, portandosi su una visione d’insieme abbastanza critica, della poesia di Teilhard mette in luce aspetti positivi ed aspetti negativi[13].

Scrive invece Jacques Maritain nel volume Il contadino della Garonna in un paragrafo dedicato a Teilhard de Chardin e il teilhardismo: “Qualunque cosa abbia potuto fare e sperare il Padre Teilhard, le sue idee potevano trovare, in realtà, la loro espressione solo in quanto frammenti d’un vasto poema che avrebbe scritto. Non ci aspettiamo certo da un poema che esso ci porti un sapere razionale qualsiasi, scientifico, filosofico o teologico. Ci attendiamo soltanto che ci riveli un po’ di ciò che, in un oscuro contatto, il poeta ha afferrato di se stesso e delle cose, contemporaneamente. Tuttavia se ne può ammirare l’ardimento e la bellezza; esso può - soprattutto il poema di cui sto parlando - destare in coloro che lo amano pensieri fecondi e alte aspirazioni, e far anche cadere in essi pregiudizi e barriere e aprir loro lo spirito alla fiamma della fede viva che bruciava nell’animo del poeta. È infatti privilegio della poesia poter trasmettere una fiamma invisibile, e, per grazia di Dio, una fiamma come questa. (…) Sono numerosi, credo, coloro il cui cuore s’è aperto alla grazia della fede tramite il Padre Teilhard de Chardin e la lettura dei suoi libri”[14].

Tornando nello stesso volume a parlare di Teilhard de Chardin in un’Appendice, Maritain si esprime così: “La sua ardente preoccupazione metafisica e teologica, per quanto poco illuminata, ha avuto nel suo pensiero una parte assolutamente centrale. Sono appunto i temi generati da questa costante preoccupazione (nobile in sé, ma aberrante), a fare tutta l’originalità - e l’enorme prestigio - della sua sintesi cosmologica. Sull’evoluzione del Mondo e della Vita, presa nella sua realtà discernibile dalla ragione, non ci insegnò nulla che oggi tutti gli uomini di scienza già non sappiano. Se si demitizza Teilhard, di questa originalità non resta altro che un potente slancio lirico che lui stesso ha preso per una specie di anticipazione profetica”[15].

Al di là dei tanti giudizi di approvazione o di dissenso, tra avanzamenti e rovesciamenti, in Teilhard si affaccia indiscutibilmente una profonda poesia, a prescindere dalla forma esteticamente discutibile dell’espressione conferitagli. Ed è su di essa che merita per qualche istante portare l’accento.

Poesia come forza. Forza originaria e suprema. Esattamente come l’eros, di cui forse è sublimazione. L’eros è qualcosa che si dà semplicemente col darsi della vita psichica. Gli esseri dotati di psiche non possono farne a meno, al punto che il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, lo intese come un’energia costantemente prodotta e costantemente da liberare. E all’eros ricondusse ogni tendenza dell’io in cerca del piacere in generale, non solo del piacere legato all’espressione sessuale. Dunque tendenza che ricopre l’arco integrale e insieme indiviso dell’esistenza umana. Ma riducendo il flusso di questa energia ad un flusso materiale e meccanico, Freud parlò di sublimazione quando l’eros viene deviato verso grandezze non proprio di ordine materiale, quali sono il piacere della cultura, della scienza, dell’arte, della politica o della religione.

La tesi freudiana potrebbe però essere rovesciata. Perché non intendere cultura, scienza, arte, politica e religione in guisa di espressioni di fondo dell’eros, espressioni se non originarie certamente supreme, rispetto a cui altre forme di piacere ne rappresentano la solidificazione, che è concentrazione in peso invece che dilatazione in leggerezza? La poesia allora può con ogni diritto assurgere a forza erotica in qualità di forza suprema, forza divina, pertanto forza plasmatrice o addirittura forza creatrice.

Ora ci si può domandare: quanti lettori di Teilhard de Chardin non hanno sentito scendere su di loro una forza plasmatrice o ricreatrice proprio mentre, scorrendone il pensiero di pagina in pagina, percepivano il potere penetrante - ad un contempo dissolvente e ricostruente - della sua parola? Se non si resta inchiodati ad un concetto formale di poesia, si comprende senza difficoltà come Teilhard abbia saputo trasformare in poesia anche il suo modo di fare scienza. Cosicché, a mo’ di un circolo virtuoso, proprio la scienza è giunta a mostrargli l’immensa e interminata poesia del creato.

La questione si traduce ora nel come accostare gli scritti di Teilhard cogliendone e gustandone la poesia, senza però perdere di mira le tante direzioni da cui il suo messaggio avanza.

La tesi apparirà un po’ audace, ma se è vero che attraverso il linguaggio della poesia Teilhard ci ha consegnato nella forma migliore la sua intuizione, si potrebbe paragonare il rapporto intercorrente fra tutto quanto ha inciso in poesia e tutto quanto ha narrato in stile di saggio al rapporto che in letteratura sussiste tra la poesia e la poetica. Scrive Luciano Anceschi in uno studio storico-fenomenologico su Le poetiche del Novecento in Italia: “Nata con la poesia, la poetica (…) rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità, gli ideali. Come quella delle filosofie dogmatiche, anche tale riflessione pretende di presentarsi sempre come universale, assoluta, esclusiva, ma siffatto modo di sentire corrisponde al tono di necessaria assolutezza ed esclusività proprie all’azione, al gesto di scelta, ogni volta che si fa. (…) Si tratta (…) di una riflessione di tipo pragmatico, volta a ordinare e a significare i mezzi del fare. (…) Essa rappresenta uno sforzo intenzionato verso la poesia, e (…) giova a istituire quel rapporto poetica-poesia che ci porta all’interno, come nel segreto della gestazione poetica. È vero: possiamo leggere i Canti di Leopardi senza tener conto della meditazione sulla poesia consegnata giorno per giorno nello Zibaldone, ma penetriamo molto più a fondo nella invenzione di quella poesia se scopriamo il sistema di intenzioni su cui il poeta lavorò, e che a suo modo lo esaltava”[16].

Nella ricerca sempre aperta e mai conclusa di Teilhard de Chardin si profila un movimento analogo. Egli da sempre sembra essere stato su una cima e là avere avuto la visione, avere ascoltato un canto. Un canto che in momenti privilegiati e probabilmente cruciali gli è sgorgato dal cuore ed egli ha reso vivente e comunicabile, conferendogli forma in musica e parole. Tutto il resto è descrizione dell’immenso lavoro e del travaglio interiore che invita ad ascoltare quel canto, ad apprezzarlo in tutta l’armonia che lo fa essere e quale risultato di infinite confluenze. Ma infine, all’orecchio ormai affinato, risuonerà la musica pura, liberata dalla storia creatrice che ne ha ritmato le tappe e da qualunque commento, sintesi di un immenso sforzo e pacificazione serena nell’armonia intravista.

Armonia intravista, sebbene non ancora raggiunta. Se Teilhard non fosse stato poeta, non avrebbe scritto quel che ha scritto, o comunque non lo avrebbe scritto come lo ha scritto. Inoltre, non solo non avrebbe utilizzato la scienza per vedere quanto la maggior parte degli scienziati che rimangono solo tali non vedono, ma non avrebbe narrato certe pagine di storia da lui vissuta come di fatto le possiamo leggere nei saggi tramandati, né avrebbe cercato di far aderire il messaggio cristiano ad una Weltanschauung così originale e innovativa.

A consolidare un’interpretazione simile stanno alcune pagine tra le più splendide che la sua penna abbia consegnato ad amici e posteri, tra silenzi agghiaccianti e parole sublimi. Si pensi agli scritti del tempo di guerra come La lotta contro la Moltitudine, L’Ambiente Mistico e La nostalgia del Fronte. Vi traspare la sensibilità di un uomo che cerca la comunione fra gli uomini e l’unificazione ultima dell’intero movimento cosmico proprio nel momento in cui fa esperienza dell’esatto contrario: il dramma di un’umanità belligerante e divisa. Con diligente discrezione, egli “non insiste sulle atrocità dei combattimenti di cui fu testimone”, “non descrive gli orrori della guerra”, “si spinge più lontano”, alle “tendenze profonde del cuore dell’uomo”, “cause della divisione”[17], ma anche aneliti all’unità, “la concentrazione attesa di tutti i pensieri in un solo Spirito e in un solo Cuore”[18].

Per non aver indugiato sulla negatività che di fatto un conflitto bellico comporta, qualcuno ha ritenuto Teilhard un insensibile. Forse invece dalla sensibilità di Teilhard promana una luce abbagliante, che non tutti sopportano. Luce di un credulone? Luce di un sognatore? O luce di un uomo che non ha soffocato il canto dell’anima, ma ha continuato ad ascoltarlo al di sotto e al di sopra di tanti rumori, sostanza di quell’Ambiente Divino e stile di quel fiducioso cammino da lungo tempo intrapreso e per lui ormai irreversibile? Le seguenti righe confermano, in una prosa altamente poetica, lo spirare di un alito sovrumano dentro gli abissi di una quotidiana umanità, tra le forme di un dolore dalla “nobile origine”, come egli si esprime ne La lotta contro la Moltitudine.

“Quando l’anima avverte aspramente l’impenetrabilità che fa di essa un mondo chiuso e misterioso per tutte le altre, impotente a comunicare le proprie idee, a descrivere la propria angoscia, a far apprezzare il proprio amore…

Quando ha paura e freddo perché smarrita, isolata in seno allo stuolo dei viventi, la cui moltitudine senza nome, senza cuore, senza volto, a forza di essere innumerevole, ci spaventerebbe come un mostro se potessimo dominare il suo immenso flusso e riflusso…

Quando noi ricadiamo, schiacciati dalla stanchezza, sotto il carico d’inerzia che bisognerebbe sollevare per orientare gli uomini verso una maggiore saggezza e una maggiore bontà…

Quando la voce ci muore in fondo alla gola che si è arrochita a urlare la Verità, senza riuscire a dominare il tumulto delle città, né a far voltare nemmeno lo sguardo degli indaffarati e dei distratti…

Quando ci coglie la vertigine di essere inchiodati soli con noi stessi, sulla prora del Mondo in cammino, senza che nessuno ci apprezzi esattamente o si occupi sinceramente di noi, o possa sostituirsi a noi nel compito e nella responsabilità di creare il nostro destino… immaginiamo di udire ancora il pianto del nostro piccolo essere egoista che mendica un supplemento di felicità.

In realtà, ciò che geme in noi è più grande di noi. La voce che sentiamo allora è quella dell’Anima unica dei tempi futuri che, in noi, piange sulla sua Moltitudine. Ed è anche l’alito di quest’Anima nascente che passa in noi, nella aspirazione fondamentale, ostinata, insanabile, di unione totale, che alimenta tutte le correnti poetiche e panteistiche, e tutte le forme di santità”[19].

Prospettive del tutto affini emergono da L’Ambiente mistico, contemplazione della “Realtà unica” il cui sussulto non viene meno pur “sotto il transeunte e la pluralità”. “Bisogna aver provato profondamente il tormento di essere immersi nella molteplicità che turbina e fugge sotto le dita, per meritare di assaporare l’entusiasmo che solleva l’anima quando, sotto l’azione unificatrice della Presenza universale, essa si accorge che il Reale è diventato non soltanto trasparente ma solido (…) Il mondo è pieno, pieno d’Assoluto”[20].

E poi ancora: “Benedette siano le delusioni che ci strappano la coppa dalle labbra e le catene che ci trascinano ove non saremmo voluti andare!

Benedetto sia il Tempo inesorabile e la sua perpetua tirannia, l’inesorabile schiavitù del Tempo che va troppo lentamente e irrita le nostre impazienze, del Tempo che corre troppo veloce e ci fa invecchiare, del Tempo che non si ferma né torna mai indietro!

Benedetta sia soprattutto la Morte, con il terrore della ricaduta nelle Energie cosmiche. Con la morte, una potenza forte quanto l’Universo si precipita sui nostri corpi per polverizzarli e dissolverli; un’attrazione più formidabile di qualsiasi tensione materiale trascina le nostre anime, senza resistenza, verso il Centro al quale sono destinate. La morte ci toglie totalmente ogni punto di appoggio in noi stessi, per abbandonarci alle potenze del Cielo e della Terra”[21].

Infine La nostalgia del Fronte. “Al Fronte, la potenza scatenata della materia, l’ampiezza spirituale del conflitto in corso, il dominio trionfante delle energie morali sprigionate, uniscono i loro appelli all’orgoglio nobile e al bisogno di vivere, e versano al cuore un filtro appassionato. Lassù, si stabilisce la convinzione vittoriosa, sovrana, che si può “dar il via”, sul duplice piano dell’azione terrestre e celeste, a tutte le forze e a tutta l’anima. Tutte le molle dell’essere possono tendersi. Tutte le audacie sono autorizzate. Per una volta, almeno, il compito umano si rivela superiore alle nostre aspirazioni”[22].

Queste righe non descrivono ciò che l’autore ha empiricamente visto. Descrivono invece ciò che è possibile poeticamente intravedere, misticamente contemplare ed attivamente far apparire. Leggendole attentamente si ha la fondata impressione che “non sia stato lo spettacolo del molteplice a portare Teilhard all’intuizione dell’unità del mondo, quanto piuttosto l’intuizione dell’unità del mondo in via di formazione che l’ha reso sensibile al molteplice”[23]. Ed è nel molteplice in salita all’unità che si colloca e va orientato il senso dell’agire umano, l’impegno nella storia.

 

4.   Il fronte della storia umana come guglia dell’evoluzione cosmica

Che cosa diventa la realtà storica dell’uomo quando la scienza induce a concepire ogni cosa ed ogni evento inseriti in un processo non ancora terminato? Se poi, come s’è visto, dalla prospettiva dell’Evoluzione e contrariamente a quanto accade in Fisica, anche lo spazio diventa una dimensione del tempo, onde si genera una dinamica con date linee di tendenza, a che cosa si riduce il segmento temporale di una singola esistenza umana in rapporto alla totalità cosmica come durata? E se infine la poesia intuisce o percepisce quel processo come un Ambiente Divino dato prima che l’uomo fosse, anche se in prospettiva dell’ominizzazione e, per un più intenso lavoro di amorizzazione, addirittura di cristificazione, quale possibilità resta all’uomo di costruire liberamente la propria storia?

Di fronte a queste domande, che all’udito di molti appariranno un gioco astratto di intellettuali, vi sarà senz’altro chi reclama il realismo della vita materiale, la concretezza dell’azione che giorno dopo giorno si qualifica buona per utilità ed efficacia. A parte i fallimenti di troppi sedicenti realisti proprio nel loro modo di stare in contatto con la realtà, i quali, non sapendola guardare come un Tutto vi agiscono senza lungimiranza, senza innalzarsi e senza innalzarla ma solo consumandola, esiste invece una forma di realismo che ha sempre a che fare con la speranza e con l’utopia, con qualcosa che nell’azione trascende l’azione e la cala in un progetto perché avverte che al fondo di tutto sussiste lo stare in un processo.

In epoca moderna, quando la scienza cominciò a sottrarre terreno alla filosofia della natura e comunque a riorientarla, la filosofia intraprese a porre sempre più l’accento sulla storia come realtà del divenire umano e delle sue possibilità. Nel graduale processo di immanentizzazione del reale, la storia è diventata per molti il luogo esclusivo delle decisioni e del progresso umano, dove il determinismo dell’accadere può entro certi limiti essere vinto e superato con la potenza dei mezzi che la scienza mette a disposizione dell’uomo. Ma il concetto di storia che pervade in generale la modernità, di cui per altro non vanno trascurate sfumature e differenziazioni, non equivale al concetto di storia che trapela dagli scritti teilhardiani.

Uomo pienamente inserito nei progressi della modernità, Teilhard si sente altrettanto bene inserito nella temporalità globale del Cosmo. Ad ogni piè sospinto, il suo problema è quello della sintesi, non della scelta o della decisione che escludono. La sua anima è figlia dello spirito della scienza non meno che dello spirito della fede, e della fede cristiana evangelicamente radicata e sostanziata. Egli non era un biblista. Né i riferimenti biblici da lui proposti nell’estensione delle opere sembrano tener conto dei particolari e della complessità che un testo così multi-prospettico come la Bibbia contiene, pur cogliendone i vertici attorno ai quali ruota l’intera massa dei contenuti sottostanti. Tuttavia, formatosi anche nella luce della Bibbia, Teilhard ne ha afferrato il concetto sotteso in ogni pagina e lo ha restituito con evidenza nell’insieme: la Bibbia è storia umano-divina di salvezza. Protratta dalla Genesi all’Apocalisse, essa è descrizione della storia del mondo tra un inizio e un compimento, tra un Alfa ed un Omega, dove i due termini si implicano a vicenda e stanno in riferimento ad un Principio o Causa che pone in atto e rinnova costantemente il Tutto.

La mediazione tra i due estremi - la base e il vertice nell’allegoria teilhardiana del “cono” - si ricompone grazie alla categoria concettuale di “Trasformazione creatrice”, nel significato di “Creazione per Trasformazione”, quindi di “Creazione nella forma dell’Evoluzione”, senza l’estromissione di una Causa trascendente, personale e personalizzante che agisce dall’interno e si serve di tutte quelle modalità che il sapere umano a sua volta descrive ed interpreta. Teilhard precisa: “La Creazione non è un’intrusione periodica della Causa prima: è un atto coestensivo all’intera durata dell’Universo. Dio crea sin dall’origine dei tempi e, vista dall’interno, la sua creazione (anche iniziale?) assume la figura d’una trasformazione. L’essere partecipato non è posto a blocchi che si differenzierebbero ulteriormente grazie ad una modificazione non creatrice. Dio immette continuamente in noi dell’essere nuovo”[24].

Nell’innovazione del concetto biblico di storia umano-divina di salvezza effettuata da Teilhard, il mondo nella valenza di spazio, come già detto, viene assorbito nella dimensione del tempo. Anche questa è una prospettiva già presente nel libro sacro. La creazione è il luogo di una storia. Lo testimonia in modo abbastanza evidente il fatto che Israele abbia raccontato una storia della creazione solo dopo aver compiuto l’esperienza di essere stato un popolo guidato da Dio per mezzo di un’azione temporale. Dio “crea” il mondo alla medesima stregua con cui “crea” il popolo eletto. Il duplice racconto della creazione nei primi capitoli della Genesi, infatti, letterariamente si struttura sul prototipo di una narrazione storica e viene così a costituire il primo atto della storia di Dio a fianco dell’uomo. Storicamente e redazionalmente, invece, tale racconto posto in apertura del testo biblico trasgredisce in pieno, contro ogni apparenza derivante dal suo contenuto logico, la sequenza della composizione cronologica: soprattutto il primo capitolo - creazione dell’universo in sei giorni e riposo di Dio al settimo - appartiene ad una delle più recenti tradizioni riconosciute alla base della redazione del Pentateuco.

A sostegno della stessa tesi risaltano numerosi passi biblici in cui il mondo, ovvero la natura come spazio, assurge a considerazione proprio quando ha a che fare con la storia dell’uomo. Qualche esempio tra i tanti illustra a sufficienza il concetto.

a) Il diluvio è un fenomeno naturale e viene descritto come “universale”, ma è posto in relazione con l’arroganza di tutta l’umanità, ad eccezione di un uomo giusto e della sua famiglia grazie al quale un’arca galleggerà sulle acque, le nubi in cielo si dissiperanno, apparirà l’arcobaleno, il lavoro riprenderà il suo corso e con il lavoro la vita[25].

b) La Terra Promessa è una “terra dove scorre latte e miele”[26], simbolo di ogni abbondanza, ma è terra di conquista ed è dono di Dio fatto al popolo, un dono continuamente oggetto di possesso e di perdita a seconda della fedeltà o dell’infedeltà all’Alleanza con Dio.

c) La celebrazione delle opere di Dio attraverso il creato, nel libro di Giobbe, rappresenta un espediente per ammaestrare ad un senso della fede più profondo e più puro un uomo che aveva avuto il coraggio di maledire il giorno in cui nacque e di discutere il piano di Dio[27].

d) Il salmista che ammira l’estendersi del nome di Dio su tutta la terra e vuole innalzarne la magnificenza sopra i cieli, la luna e le stelle, in realtà celebra il potere che l’Altissimo ha conferito all’uomo rendendolo padrone sulle opere da Lui create[28].

In Teilhard vi sono passaggi di pensiero dove egli implicitamente si fa erede dello spirito scritturistico in quanto ne riprende le determinazioni di fondo. Intanto le trasforma e le oltrepassa facendo apparire una nuova visione. Come quando scrive: “Indubbiamente, sotto il moto ascendente della Vita, si nasconde l’azione continua di un Essere che solleva l’Universo dall’interno. Nell’esercizio ininterrotto delle cause seconde, accade (in numerosi miracoli) una dilatazione eccezionale delle nature, di gran lunga superiore a quanto potrebbe fornire il gioco normale dei fattori e degli eccitanti creati. Considerati obiettivamente, i fatti materiali contengono del Divino. Ma, in essi, questo Divino, relativamente alla nostra conoscenza, non è che una semplice potenzialità. Resterà dunque allo stato potenziale fintantoché non avremo, per rendere reale nella nostra mente il mondo sovrasensibile, delle facoltà abbastanza preparate non solo dall’esercizio dell’analisi e della critica, ma ben di più dall’affinamento morale, ed una totale fedeltà a seguire la stella sempre ascendente della verità”[29].

Si potrebbe interpretare il passo, semplificandolo, rileggendolo così: nel cosmo come durata, che è Ambiente Divino, il Divino resta potenziale nei fatti materiali, ma si tratta di una potenzialità di per sé protesa a quella che, con una bella immagine, Teilhard chiama “stella sempre ascendente della verità”. Tuttavia, tra la potenzialità data e la verità come stella ascendente si colloca per noi da un lato l’esigenza della consapevolezza (analisi e critica), dall’altro l’esigenza dell’azione come impegno nella storia (affinamento morale).

In prospettiva della realizzazione delle potenzialità date nell’Ambiente Divino in cammino verso la verità, sembra potersene dedurre che la storia umana, intesa come azione in progresso per il progresso dell’uomo, sia un passaggio obbligato. Ciò nonostante non un passaggio obbligante, in quanto la volontà umana, specie se guardata come volontà dei singoli uomini, non è determinata a percorrere una sola direzione, non ha come meta un unico oggetto, né è tenuta a mostrare la sua pienezza tutta in una sola volta senza deviazioni e senza fallimenti. Un concetto chiarificabile con il seguente esempio. Immaginiamo di dover passare dalla sponda di un fiume ad un’altra. Per effettuare il passaggio si rende necessario, vale a dire obbligante, un ponte (o qualunque mezzo sostitutivo), ma il ponte “può essere attraversato con le più diverse intenzioni e per i più diversi fini; anzi, può essere teatro delle più diverse gesta: il rapinatore, il sicario, l’eroe, il martire, il pacifico viandante… possono avvicendarsi su di esso, senza che alcuno possa dirsi necessitato nel suo atteggiamento e nelle sue azioni dall’unicità del ponte”[30].

Nel rapporto dialettico tra obbligato e non obbligante si raffigura già il timido comparire di una luce sul modo di essere della libertà umana e sul suo utilizzo da parte dei singoli, libertà che non è mai un’affermazione assoluta poiché l’individuo, comparendo in un Tutto, può solo muoversi entro le possibilità consentite al suo interno e confinato nei limiti dell’angolazione del Tutto cui appartiene. Riprendendo allora più a fondo le questioni enunciate all’inizio del paragrafo, è invece proprio in relazione al Tutto che il segmento temporale di una singola esistenza umana, sulla base delle potenzialità date e quindi della libertà, può compiersi nel cammino avviato verso l’armonia e l’unità del Tutto, oppure tornare alla dispersione originaria. La storia umana sarà una storia riuscita nella misura in cui i singoli individui, per un processo di unificazione già instauratosi con la storia degli atomi e divenuto al livello della Noogenesi un processo di amorizzazione sempre più complesso ed intenso, s’immergeranno con ulteriore crescente consapevolezza nella Totalità dinamica che li contiene, come fossero “centri infinitesimali” dentro una sfera nella quale il posto di ognuno ha il carattere dell’unicità.

Detto ancora in altri termini: il “significato dell’individuo umano” si inserisce nella possibilità stessa del successo dell’Evoluzione cosmica e grazie al fatto che ogni uomo in quanto “monade riflessa” può trovarsi solidale nel cammino di convergenza verso il Centro (Centrogenesi). “Dal punto di vista “esistenziale”, ogni monade riflessa può essere considerata (per natura, valore e funzione) come un particolare fuoco di osservazione e di azione che si diffonde, a partire da un punto determinato e unico del Tempo e dello Spazio, sulla totalità (passata, presente e futura) del Mondo circostante. Il che significa che, per costruzione e struttura, ogni ego umano è in modo elementare, ma anche insostituibile e “non spostabile”, coestensivo all’Universo intero”[31].

Il successo dell’obiettivo - Evoluzione convergente verso un Centro ultimo - sarà davvero raggiunto? E con quale garanzia?

Risultano a tal proposito illuminanti le pagine conclusive dell’opera Il posto dell’uomo nella natura. Dapprima l’autore premette che il nostro procedere verso stati sempre più “centrati” avviene “in forza dell’avvolgimento generale del Weltstoff[32] nell’intimità del nostro essere sotto tre aspetti: collettivo, individuale e cosmico.

Collettivamente: “Si potrebbe dire, in modo teorico e ideale, che l’Umanità giungerà al termine quando, avendo finalmente capito, avrà, con una riflessione totale e definitiva, ricondotto tutto, in sé, a un’idea e a una passione comuni”[33].

Individualmente: “Da quando l’ominizzazione è entrata nella fase convergente, diventa evidente che solo per effetto di sintesi, cioè di personalizzazione, noi possiamo salvare ciò che si cela di veramente sacro in fondo al nostro egoismo. L’estremo centro di ciascuno di noi non si trova al termine di una traiettoria solitaria e divergente; ma coincide (senza confondersi) con il punto di confluenza di una moltitudine umana tesa, riflessa e unanimizzata liberamente in se stessa”[34].

Cosmicamente: nella suddetta prospettiva “è giocoforza immaginare, in corrispondenza del punto di riflessione noosferica, un qualche Termine assoluto dell’Universo al polo dell’emisfero la cui volta si sta racchiudendo sopra di noi”[35]. Qui Teilhard, ricorrendo a un’immagine di fantasia, ipotizza che, in opposizione all’atomo primitivo contenente l’intera massa siderale da cui, secondo l’astrofisica contemporanea, sarebbe derivato il mondo, si possa spingere all’estremo la serie dei risultati raggiunti in ambito biologico: così, analogamente all’ipotesi degli astronomi sull’atomo primordiale, sarebbe lecito pensare all’esistenza di un “Focolaio universale”, denominabile Omega, “non di esteriorizzazione e di espansione fisica, ma di interiorizzazione psichica”[36].

Sorge però la domanda: “Lanciati come siamo nella direzione di un obiettivo preciso situato nell’avvenire, quali garanzie abbiamo di arrivare al traguardo?”[37].

Da un lato Teilhard constata che è la struttura stessa dell’Universo a costringere all’unificazione, donde “la completa e radicale incapacità in cui si trova la pluralità umana di sottrarsi alle potenze che tendono a radunarla organicamente su se stessa”[38]. Dall’altro lascia calare il dubbio su una constatazione simile, interrogandosi su quale sicurezza abbiamo di pervenire un giorno “all’unità verso la quale ci troviamo spinti”, formulando la domanda: “l’universo si concentra in alto con altrettanta sicurezza e infallibilità di quanto “si entropizzi” in basso?”[39].

Dal punto di vista dei fatti, la risposta sembra essere negativa, poiché “la sintesi implica dei rischi. La Vita è meno certa della morte”[40]. Essere sotto lo stampo terrestre di una ultra-ominizzazione non ne determina necessariamente la riuscita, che richiede condizioni esterne e condizioni interne. Le prime corrispondono alle risorse del pianeta in misura sufficiente per essere utilizzabili ancora a lungo termine con lo scopo di accrescere, mediante conoscenze ed aspirazioni, “il germe collettivo della Noosfera”; le seconde “sono legate al funzionamento della nostra libertà”[41].

Quanto alle prime, non sembrano sussistere possibilità di scacco. Ma se ciò dovesse verificarsi, “lo sforzo del Mondo per centrarsi definitivamente dovrebbe essere ritentato in un altro punto del cielo”[42].

Più minacciose sono le condizioni interne dipendenti dalla “libertà riflessa”, principio indispensabile del “rimbalzo evolutivo della Vita”, ma contemporaneamente fattore potenziale di “emancipazione disordinata”, quantunque le probabilità di errori diminuiscano dov’è in gioco l’”effetto dei grandi numeri organizzati”, per cui “più la Noosfera si avvolge e più aumentano le sue probabilità di centrazione terminale su se stessa”[43]. A questa condizione ne va aggiunta un’altra, in grado di procedere pari passu con l’evoluzione convergente: intensificazione nell’anima umana delle “ragioni” e del “gusto di vivere”, della “passione di crescere”, dentro un’atmosfera cosmica resa progressivamente “sempre più luminosa e sempre più calda” di fronte al presentimento di un Esito finale, grazie anche alla “irradiazione di un focolaio attivo di unanimizzazione”[44].

Ciò nonostante, la specie umana si trova davanti tanto la possibilità di “crescere” ancora quanto la possibilità di “scioperare”, e il fallimento le deriverebbe “se giungesse, per disgrazia, al punto di disinteressarsi o di disperare del movimento che la chiama in avanti”: una possibilità data solo sull’ipotesi di un “raggruppamento totalizzato, impersonale e reversibile” dei granelli di coscienza “momentaneamente riflessi gli uni sugli altri”[45]. Ma le parole che Teilhard scrive chiudendo la stesura del suo saggio risuonano come un sussulto di speranza, nuova apertura e conferma fiduciosa che infine la vittoria ci sarà: “A meno di essere impotente a costruire la chiave di volta della Noosfera, “Omega” non può essere concepito che come il punto d’incontro tra l’Universo giunto al limite di centrazione e un altro Centro ancora più profondo: Centro autosussistente e Principio assolutamente ultimo, d’irreversibilità e personalizzazione: l’unico vero Omega…”. Ma qui “si innesta il problema di Dio, motore, collettore e consolidatore, in avanti, dell’evoluzione”[46].

 Articolo apparso su Teilhard aujourd'hui 24 (giugno 2017)

 

[1] Intervento tenuto al ritiro dell’Associazione Italiana Teilhard de Chardin, Monastero di Bose, 1° aprile 2017

 

[2] Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1968, 19732, p. 25 e p. 26.

[3] Claude Cuénot, L’Evoluzione di Teilhard de Chardin, tr. it., Feltrinelli, Milano 1962; passo riportato in Robert Coffy, Teilhard de Chardin e il socialismo, Ed. Paoline, Alba (CN) 1968, pp. 42-43. (Tit. orig.: Teilhard de Chardin et le socialisme, Lyon 1966).

[4] Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, op. cit., p. 29.

[5] Robert Coffy, op. cit. p. 46.

[6] Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, op. cit., rispettivamente p. 292, p 294 e p. 295.

[7] Robert Coffy, op. cit., p. 35.

[8]Ib., p. 50.

[9] Ib., p. 53.

[10] Ib., p. 54.

[11] Una felice espressione cui Alberto Palese ricorre nel sottotitolo del suo recente saggio, Teilhard de Chardin. L’uomo sacerdote del cosmo, Jaca Book, Milano 2016.

[12] Annamaria Tassone Bernardi, Teilhard de Chardin. La poesia del cosmo, Studium, Roma 1997.

[13] Sergio Quinzio, Che cosa ha veramente detto Teilhard de Chardin, Astrolabio - Ubaldini, Roma 1967. (Cf. cap. 9: Teilhard poeta, pp. 142-145).

[14] Jacques Maritain, Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1969, 19778, pp. 190-191. (Il paragrafo dedicato a Teilhard de Chardin occupa le pagine 177-192).

[15] Ib., pp. 396-397. (La citazione è desunta dall’Appendice II che ha per titolo Su due studi concernenti la teologia di Padre Teilhard. Essa occupa le pagine 389-397).

[16] Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, Marsilio, Venezia 1990, pp. 5-6. (L’autore, 1911-1995, fu docente di Estetica all’Università di Bologna).

[17] Robert Coffy, op. cit., p. 23.

[18] Pierre Teilhard de Chardin, La lotta contro la Moltitudine, in La vita cosmica, tr. it., Il Saggiatore, Milano 1971, p. 150.

[19] Ib., pp. 154-155.

[20] Pierre Teilhard de Chardin, L’ambiente mistico, in La vita cosmica, op. cit., p. 192.

[21] Ib., p. 202.

[22] Pierre Teilhard de Chardin, La nostalgia del Fronte, in La vita cosmica, op. cit., pp. 242-243.

[23] Robert Coffy, op. cit., p. 25.

[24] Pierre Teilhard de Chardin, Sul concetto di Trasformazione creatrice (1920), in La mia fede, Queriniana, Brescia 1993, 20153, p. 27.

[25] Genesi 6-9.

[26] Esodo 3,8; Levitico 20,24; Numeri 13,27; Siracide 46,8; Geremia 11,5; Ezechiele 20,15.

[27] Giobbe 36,22-41,26. Sulla maledizione pronunciata da Giobbe: 3,1-26.

[28] Salmo 8,2-10.

[29] Pierre Teilhard de Chardin, Nota sulle modalità dell’azione divina nell’Universo, in La mia fede, op. cit., pp. 34-35.

[30] Nicola Petruzzellis, Storia e storiografia, in Dizionario Enciclopedico di Filosofia, Lucarini - Le Lettere, Firenze 1982, vol. VII, p. 1141.

[31] Pierre Teilhard de Chardin, Per vederci chiaro (1950), in Verso la convergenza. L’attivazione dell’energia nell’umanità, Il Segno dei Gabrielli, Verona 2004, p. 186.

[32] Pierre Teilhard de Chardin, Il posto dell’uomo nella natura (1949), Il Saggiatore, Milano 1970, p. 172.

[33] Ib., p. 173.

[34] Ib., p. 175.

[35] Ib., p. 175.

[36] Ib., p. 176.

[37] Ib., p. 177.

[38] Ib., p. 179.

[39] Ib., pp. 179-180.

[40] Ib., p. 180.

[41] Ib., p. 181.

[42] Ib., p. 181.

[43] Ib., p. 182.

[44] Ib., pp. 182-183.

[45] Ib., p. 183.

[46] Ib., p. 184.

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