La Pandemia Covid 19 e le regole di Malthus

Anna Rita Innocenzi

 

La Pandemia Covid 19 e le regole di Thomas Malthus

   Anna Rita Innocenzi è Docente di Discipline giuridiche ed economiche e Docente di Storia del pensiero politico contemporaneo presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma.

La crescita demografica

L’economista Thomas Malthus, prete anglicano inglese, auspicava la diminuzione della popolazione e, quale primo demografo scientifico, osservava l’aumento della densità demografica secondo una proporzione geometrica, di contro ad un incremento non corrispondente delle risorse, che seguiva invece una crescita solo aritmetica.

Dinanzi a tale incresciosa situazione egli, economista liberale, propose di lasciar fare alla natura, che avrebbe saputo risolvere il problema mediante i suoi ancestrali e sempre efficaci strumenti quali le epidemie, le carestie, le guerre.

Erano i primi anni del XIX secolo e le condizioni di vita prodotte dalla prima rivoluzione industriale e dall’urbanesimo incontrollato, erano miserrime: orari lavorativi massacranti per uomini, donne e bambini, senza alcuna protezione, in assoluta carenza di disposizioni antinfortunistiche o di tutele sindacali, riducevano la popolazione a situazioni di assoluto degrado, di totale inumanità.

Tuttavia il credo economico liberale di Malthus, ispirato a Smith e al suo principio della mano invisibile, diede tangibile prova della sua inadeguatezza dinanzi alla grande crisi del 1929, a quel giovedì nero che, mediante il crollo dei titoli a Wall Street, raccontava una realtà diversa, diceva che nessun meccanismo automatico poteva condurre all’equilibrio e all’armonia il sistema economico, vale a dire ad una condizione soddisfacente,  nella quale domanda ed offerta di beni e servizi si eguagliavano, rendendo pienamente paghi compratori e venditori.

La terribile crisi fece emergere un nuovo attore, un ignorato protagonista, il popolo, la gente, la domanda collettiva, il consumo aggregato, che non possono essere ignorati, ma vanno ascoltati e seguiti, pena il collasso del sistema. Una buona politica sociale, dunque, è necessaria con un intervento pubblico teso a soddisfare le esigenze di chi, sino ad allora, era rimasto soggetto ignorato ed inascoltato, l’uomo comune, o meglio,  la persona con le sue istanze.

È lo Stato, dunque, quale portatore delle necessità collettive che deve divenire protagonista della storia e dell’intervento economico. Uno Stato che si impegna nella tutela della classi più deboli e disagiate, che garantisce a tutti il diritto alla salute e che non soggiace inerme alle leggi di una natura spietata (matrigna, direbbe Leopardi) cui lascia la gestione e la soluzione del problema della sovrappopolazione

Se, dunque, il credo maltusiano risulta fallace alla prova dei fatti dopo la crisi del 1929, lo è ancora di più oggi, dinanzi a questa terribile pandemia, che avviluppa il mondo con i suoi tentacoli insidiosi. Come si può pensare, in uno stato di diritto fondato sulla sacralità e sull’inviolabilità dei diritti e della dignità umani, di condividere il credo maltusiano e di lasciare che un virus produca liberamente ed impunemente i suoi effetti?

In una circostanza come quella attuale il mondo intero si unisce in un grido di sofferenza e di incredulità di fronte all’impotenza dell’uomo, ma riscopre nel contempo i legami della solidarietà e della fratellanza, che sembravano aver ceduto il posto alla diffidenza tra culture diverse e alla competitività estrema: ciò che arriva a ridurre l’uomo a semplice merce di scambio. Ci viene forse allora offerta, con questo terribile evento, l’opportunità di individuare un nuovo paradigma, una diversa chiave di lettura, intorno alla quale decifrare ed edificare il mondo dei rapporti umani? 

 

Il credo liberista

La constatazione della fragilità umana, diviene l’occasione per ridiscutere un sistema economico ispirato al capitalismo estremo, elaborato intorno al criterio unico ed univoco del profitto, che aveva già fin dalla crisi del 1929 dimostrato a chiare lettere la sua inadeguatezza.

Tuttavia i fatti ci inducono ad interrogarci dinanzi all’evidenza di un sistema socio-economico caratterizzato da forti oligarchie di potere che operano su un piano non solo strettamente economico, ma anche finanziario e tecnologico.

In una situazione di questo genere, tornano in auge le politiche maltusiane e voci non isolate ci mettono in guardia contro la loro diffusione nella realtà odierna, all’interno della quale assistiamo senza dubbio, alla crescita costante della popolazione, in particolare nelle aree più disagiate del mondo dove, di contro, non sono disponibili dignitose condizioni di vita. Come risolvere il problema?

  Il concetto di biopotere, elaborato da Michel Foucault, ci presenta una realtà raffinata, nella quale la pervasività del dominio non abbraccia più solo il campo della fisicità, ma diviene sempre più capillare e si estende al controllo sulla mente:  pensiamo non solo alla diffusione dei mass-media di cui abbiamo avuto speciale contezza durante questa allarmante pandemia, ma alla abbondanza di telecamere, agli efficaci metodi di raccolta di dati e metadati, che si servono di apparecchiature elettroniche ed informatiche per controllare con estrema facilità, la vita di tutti noi, ai chip sottocutanei, ai dati immagazzinati nella memoria delle carte elettroniche.

  Certo, si sostiene, apprezzabile potrà essere l’utilità dei chip sottocutanei nonché, ovviamente, delle varie app in caso di futuri contagi: introduciamo allora, un transumanesimo la cui valenza etica si esprime nel miglioramento delle condizioni di vita e di benessere dell’uomo, ma che ci espone al rischio di un controllo generalizzato, il quale potrebbe condizionare la nostra libertà e privarci della nostra dignità ed autonomia, cosa che è certamente possibile dal punto di vista tecnologico nella società attuale.

  Il pensiero mi va ad Orwell  e alla sua famosa opera 1984, mentre rammento di aver letto alcune considerazioni sul legame tra le sue profetiche previsioni e l’odierna situazione legata alla pandemia e all’isolamento. Riporto dunque testualmente dal sito in questione, alcune considerazioni: “Con l’epidemia di coronavirus l’incubo distopico immaginato dallo scrittore britannico, tocca vette mai raggiunte fino ad ora… La salute è importante, ma non è tutto, perché nella vita di un individuo ci sono anche altre cose altrettanto fondamentali. La socialità, la bellezza, la cultura. Ci hanno trasformati, in nome del diritto alla salute, in uomini e donne il cui unico scopo nella giornata è uscire, produrre (sì perché molte aziende sono rimaste aperte n.d.r.), tornare a casa, chiudersi dentro e mangiare... Gli uomini e le donne hanno bisogno di cultura: di andare al cinema, a teatro, a vedere una mostra, di viaggiare e di fare sport, singolarmente e in gruppo… Hanno diritto persino di protestare, ma anche questo è stato tolto, visto che non ci si può assembrare. Allora cosa ci rimane?.. Molti di noi sono diventati i delatori gli uni degli altri, esattamente come i bambini denunciavano i genitori in 1984? Quanto possono durare, senza abbrutire completamente la popolazione italiana, le continue iniezioni di paura, di avvertimenti e divieti, che ci vengono somministrate dal governo e dai nostri mass-media? Il nostro Paese e molti altri paesi europei stanno sperimentando una torsione delle libertà democratiche che, a lungo andare, rischia di fare danni ben peggiori del coronavirus.

  Sarebbe ora che qualcuno rinsavisse e tornasse a mettere al centro di tutto non solo la salute, ma anche i diritti delle persone, perché, se è pur vero che senza salute non ci si può godere una vita autentica, è altrettanto vero che non si può vivere senza tutti i diritti, che ci sono stati negati in questi mesi.

  “Insomma vedete, cari governanti, il diritto alla salute va contemperato, tenendo conto della presenza di tanti altri diritti, che sono altrettanto fondamentali per la nostra vita e che pure loro sono costituzionalmente garantiti” (Paolo Pergolizzi)[1].

  Ѐ paradossale ricordare, come ci informa l’autore, che si era arrivati a pensare di sospendere il prestito alle biblioteche reggiane, per il timore che i libri potessero trasportare l’infezione. Riporto tali osservazioni a testimoniare il disagio, il timore, le incertezze, il clima di diffidenza, che sono stati generati dai terribili giorni vissuti e che ancora stiamo vivendo.

 

La dignità dell’uomo.

Come dunque salvaguardare la nostra dignità ed umanità senza esporci al rischio di una mortificante de-umanizzazione, che gli strumenti tecnici attuali permettono a chi volesse mantenere ancora in auge, dietro una paventata democrazia, i principi maltusiani e dare vita a pratiche illiberali?

Come salvarci dal pericolo della diffusione di una perniciosa diffidenza reciproca, che ci isola e ci rende nemici, nel momento in cui l’unica speranza di salvezza è riposta nella fratellanza e nella condivisione?  Il contagio spaventa, il male fa paura e l’altro rischia di diventare l’untore.

Occorre allora credere nel valore salvifico dell’incontro reciproco, condividere paure e sofferenze in un’agape fraterna, che ancora si ispiri all’essere alato di Platone, il quale sa chinarsi sulla sofferenza dell’uomo, riconducendola al Dio purificata dai suoi timori e dalle sue fragilità.  Sarà una vicinanza non sempre fisica, per l’impossibilità o la riduzione dei contatti imposta dal virus, ma spirituale e concreta di condivise pratiche e di  iniziative di possibile solidarietà.

Se riflettiamo sulla condizione socio-economica attuale, tuttavia, ci si presenta un quadro gravido di crisi, di povertà, di sofferenza. La chiusura delle frontiere, il lockdown, ci hanno ridotti ad una condizione, che mi pare non abbia precedenti nella storia e che, d’un tratto, ci ha privati di quei diritti, umani ed inviolabili, per i quali a lungo i nostri Padri avevano lottato e che hanno trovato ampio riconoscimento nelle Carte Costituzionali, capaci di racchiudere, proteggere ed esprimere il vissuto, i valori e la storia di un popolo.

 Il diritto di libera circolazione è stato improvvisamente sospeso, il diritto al lavoro, su cui si fonda la nostra Costituzione (art.1 e art.4), ha subìto pesanti condizionamenti, costringendoci, quando possibile, ad un’attività in streaming, quei principi inviolabili, ai quali si ispira la nostra stessa umanità e che trovano fondamento nell’art.2 della nostra Carta, elaborato sul principio del pluralismo, quale ambito imprescindibile dello sviluppo della personalità umana, sono mortificati dalla tragica condizione di pandemia, che ci fa sentire automi, privati di quella socialità, che è elemento costitutivo di ogni umanità.

Il disagio da tutti condiviso è forte,  mentre voci dissonanti ci forniscono dati confusi sulle modalità di gestire l’emergenza e i mass media ci bombardano di notizie incessanti e di immagini terribili nella loro realtà, così crude e spietate da sembrare ispirate alla fantascienza. Anche quel meraviglioso principio dell’uguaglianza che trova fondamento nell’art.3 della Costituzione e che è alla base della nostra democrazia, viene leso al contempo da un virus, che non ne rispetta certo i fondamenti, e da una condizione economica, che aggrava la disuguaglianza, privando alcuni della possibilità di sussistenza, nonché di quell’esistenza libera e dignitosa, cui tutti hanno diritto e che trova garanzia nell’art.36 della Costituzione.

 

La situazione politica ed economica

D’altronde quale democrazia e quale espressione politica, quale libertà di riunione, di associazione, di adesione a partiti e a sindacati, può essere garantita in un tale frangente? La libera manifestazione di un pensiero, che non si serva solo di mezzi virtuali, ma che nasca dall’incontro con l’altro, dal dibattito tra persone fisicamente compresenti, cosa che funge da stimolo e sviluppo propositivo di ogni pensiero, non trova più spazio? L’unica certezza è la martellante, costante presenza dei mass-media, che ci presentano un quadro orribile.

D’altro canto, alcune voci minoritarie appaiono in totale contrasto con la linea di governo globale suggerita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e ci danno soluzioni diverse, meno drastiche, più semplici e naturali, che non sembrano mortificare la nostra libertà,  né pesantemente aggravare la nostra economia, oltre che professarsi più efficaci anche per la tutela della salute.

Siamo così colpiti da un fenomeno, a cui pare anche difficile trovare un rimedio univoco e le vie d’uscita suggerite, appaiono spesso divergenti. Quale strada percorrere?  Come evitare o, invece, affrontare conseguenze nefaste?

Gli interrogativi sono molteplici, ma la via generalmente imboccata a livello mondiale, pur con qualche esitazione e ripensamento, appare sostanzialmente univoca. Ci chiediamo dunque quale quadro sanitario, sociale, politico ed economico ci presenta il futuro e cerchiamo di osservare la realtà intorno a noi, per tentare di coglierne il senso e la possibile evoluzione, in una condizione così cangiante ed incerta come è quella odierna.

Intanto facciamo parlare i dati economici, partendo da una pregressa situazione piuttosto critica, che vedeva nel IV trimestre del 2019 un calo del PIL dello 0,3%, mentre le previsioni per la disoccupazione nel 2020, ne attestavano un livello poco al di sotto del 10%. In una condizione di tal guisa, il coronavirus produce un possibile crollo del PIL fino al 6% nel primo trimestre del 2020 e la disoccupazione crescerebbe così di 250.000 - 300.000 unità (stima ‘Sbilanciamoci’). CERVED delinea uno scenario di partenza, dopo due mesi di emergenza, ed un altro di più lungo periodo, 6 mesi, che vedono un calo iniziale del turismo, basato sui due mesi, pari al 35% e che raggiunge il 70% nei 6 mesi, mentre i trasporti aerei oscillano tra un calo del 25% ed uno del 55%.

La situazione è drammatica e le pur significative  misure messe in campo non sono sufficienti a sanarla e neppure a ridurne la criticità L’Europa dal canto suo prevede interventi insufficienti,  dando prova della propria inadeguatezza e del fatto che è tuttora ancorata al concetto di sovranità statuale, che da lungo tempo avrebbe dovuto superare, non palesandosi tuttora in grado di concretare quell’organismo unitario e sopranazionale, che doveva incarnare nelle intenzioni istitutive dei Padri fondatori.

La pandemia potrebbe evidenziare, all’interno dell’Unione Europea, le già esistenti contraddizioni tra l’ispirazione unitaria delle politiche seguite e gli esiti controproducenti, mettendo a fuoco l’evidenza dei fallimenti del neoliberismo, che contribuisce ad intensificare le idiosincrasie nazionali,  proteggendo quegli interessi, che ostacolano  una concreta edificazione del progetto comune. Ovviamente un prolungamento del periodo di emergenza ed isolamento aggraverebbe fortemente le già precarie condizioni economiche, compromettendo persino la essenziale filiera alimentare.

Ѐ perciò evidente che la visibile ancora di salvezza passa inevitabilmente per una protezione diffusa dei luoghi di lavoro, ove si possa riattivare il processo produttivo, contrastando con misure efficaci la pandemia e garantendo nel contempo un livello adeguato di offerta dei servizi essenziali.

Ovviamente un quadro economico così complesso e ad ampio respiro non può essere gestito da attori privati, né in condizioni, che si propongono solo la realizzazione del profitto personale o soggettivo, ma richiede, ancora una volta, lo sottolineiamo a chiare lettere, l’intervento pubblico, il coordinamento ad ampio raggio delle attività e dei progetti, il controllo della domanda e dell’offerta aggregate, l’interazione e la cooperazione delle istituzioni pubbliche, anche a livello comunitario, sopranazionale, internazionale e mondiale.

Ѐ necessario, dunque, un cambio di orientamento, mediante una riscoperta delle sagge lezioni keynesiane, un abbandono del credo liberista, una chiave di lettura, che già all’epoca della Grande depressione l’economista aveva segnalato quale via maestra, per superare i fallimenti dei mercati: egli auspicava un mutamento della mentalità, quando scriveva che la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’allontanare quelle vecchie, produttive di radici ed incrostazioni, che albergano in ‘tutti gli angoli della mente’.

La globalizzazione non governata, iniziata negli anni ’80, l’asimmetria tra la sviluppo soprannazionale della sfera d’azione dei mercati e il contenimento del ruolo delle istituzioni, indebolito anche nei confini nazionali, la scomposizione e frammentazione territoriale dei processi produttivi, la conseguente possibilità della loro delocalizzazione internazionale, funzionale alla riduzione dei costi salariali, l’indebolimento contrattuale e politico-sociale dei lavoratori,  messi in concorrenza su scala mondiale, il calo della loro partecipazione alla distribuzione del reddito e ai consumi, ulteriormente accentuato dalle politiche di privatizzazione dei servizi di welfare, lo specifico sviluppo delle prestazioni pensionistiche e sanitarie nominalmente complementari, ma sostanzialmente sostitutive di quelle pubbliche, con effetti peggiorativi sulle disuguaglianze, le politiche di consolidamento fiscale e di contenimento del ruolo pubblico, sono tra i principali aspetti della trasformazione del sistema capitalistico, che ha generato la ‘Grande stagnazione’.[2]

Un punto critico, dunque, un momento di ripensamento di un sistema di accumulazione sfrenata del capitale e della ricchezza finanziaria, che ha miseramente fallito, ma che, anche dopo la crisi del 2008, non ha ancora imparato la lezione, ha finito col perseverare in percorsi già sconfitti dalla prova dei fatti.

Allora, ecco che l’attuale pandemia ne registra e denuncia impietosamente e drammaticamente gli esiti fallimentari, dimostrando come, in un sistema interconnesso, basta un solo blackout, dovuto a urgenze sanitarie o a mercati caratterizzati dalle forti misure protezionistiche, perché crolli l’offerta di un bene o servizio essenziale a livello globale.  Il virus ci offre una chiave di lettura realistica, eleva un monito severo nei confronti di un sistema, che ha ‘privatizzato’ la salute e che, onde contenere le spese sanitarie pubbliche, è caduto miseramente, implementando conseguenze drammatiche. Allo stesso modo, risulta sconfitta clamorosamente la politica di austerità dei bilanci pubblici, finora condotta a livello comunitario: occorre dunque riscoprire senza indugio, le efficaci politiche keynesiane, che non potranno mai prescindere, però, da una visione del mondo ispirata ai principi della dignità umana, della solidarietà, del superamento delle disuguaglianze.

 

L’aumento della popolazione

A questo proposito può apparire una provocazione, ma anche forse costituire una pericolosa insidia,  la connessione tra aumento della popolazione e questione della dignità delle condizioni umane. Abbiamo accennato al legame che Malthus stabiliva tra aumento delle risorse ed aumento della popolazione, rinvenendo un ruolo di ‘naturale riequilibrio’ nelle epidemie, carestie, guerre e catastrofi varie.

Ebbene la questione, come crediamo di aver dimostrato, non è superata o di scarso rilievo ma, a renderla di innegabile attualità, torna utile la dichiarazione fatta da Isaac Asimov a Bill Moyers nel 1989. Dinanzi alla domanda: “Che ne sarà della dignità del genere umano, se la popolazione continuerà a crescere al ritmo attuale?”, Asimov rispondeva: “Sarà completamente cancellata”.

L’efficace paragone della stanza da bagno condivisa tra 20 persone, che comporta inevitabilmente una forte limitazione dell’uso di esso e della connessa libertà di azione, indipendentemente dalla fede che si abbia in tale Libertà, paragone usato da Asimov per sostenere la sua tesi, ci illustra efficacemente quale drastico scostamento possa venirsi a creare tra norma e realtà, tra diritto e fatto.

Ebbene una tale osservazione ci induce a riflettere sul rischio potenziale, che noi corriamo oggi nella tutela dei nostri diritti e delle libertà costituzionali, in un’epoca in cui la regolamentazione dei rapporti tra molte popolazioni in costante aumento demografico, diviene complessa, dettagliata, persino opprimente nel suo intendimento di regolazione di relazioni interrelate e molteplici.

Il rischio per la tutela della nostra libertà, lo vediamo scritto indelebilmente nei giorni che abbiamo trascorso chiusi in casa, mentre le città e i luoghi di aggregazione erano spettrali e deserti e lo constatiamo nell’uso di quegli strumenti informatici, tecnologici, scientifici, che consentono oggi un livello di controllo totale della popolazione. Auspichiamo allora una nuova libertà, che si manifesti attraverso istanze che partano dal basso, che invochino forme di associazionismo, che sappiano ricorrere, ove necessario, a forme di sussidiarietà non solo verticale, bensì orizzontale, secondo la previsione costituzionale dell’art.118. Tutto ciò potrà proporsi, non dimenticando comunque di mettere al centro dei nostri progetti, la profonda dignità dell’uomo ed il diffuso sostegno ad una società democratica che sappia essere voce plurale, espressione di quelle diversità, che sono ricchezza e patrimonio condiviso

 

Un cambiamento di paradigma: la crisi ambientale

Di nuovo occorre un cambiamento di paradigma, una diversa chiave di accesso, di interpretazione e di edificazione di una realtà che evolvendo presenta tragicamente le sue criticità. Ad esempio, quella ambientale, che ora sembra passare in second’ordine. Eppure abbiamo nitide e recenti, dinanzi ai nostri occhi, le immagini di città ripopolate da uccelli di vario genere, di strade un tempo trafficatissime ove i volatili sostano ora sonnacchiosi ed indisturbati, mentre il loro canto melodioso torna a rallegrare i nostri sensi in una pluralità di suoni. Assistiamo mediante i mezzi di comunicazione di massa alle piacevoli notizie che ci danno conto della diminuzione dell’inquinamento, respiriamo meglio, nonostante le fastidiose mascherine.

Ebbene, occorre ricordare quanto affermato dall’OMS circa il numero di morti causate dall’inquinamento atmosferico che si aggira nel mondo ogni anno a circa 8 milioni di persone;  in Italia ammonta ad 80.000 il numero di morti dovuti al particolato, al biossido di azoto, all’ozono. Non si può non sottolineare che il 91% delle morti nei Paesi occidentali è causato da malattie non trasmissibili (cardiovascolari, respiratorie, tumori) e che, elevato, appare anche il numero di morti dovuto ad incidenti stradali (3.300), mentre la resistenza agli antibiotici è una delle più comuni emergenze sanitarie, che ogni anno porta alla morte 700.000 persone.

“Salta subito agli occhi che i più grandi focolai di questa pandemia, Cina e Pianura Padana, sono due camere a gas, zone industriali ad alto tasso di inquinamento atmosferico. Sarebbe sorprendente scoprire che l’inquinamento atmosferico non ha influenzato il rischio di ammalarsi e di morire per Covid 19, dal momento che la sola esposizione al particolato è di per sé, causa di mortalità, specialmente nelle persone con malattie preesistenti.”[3]

Un’indagine condotta sul legame tra SARS ed inquinamento atmosferico (la SARS, come sappiamo, ha delle similitudini con Covid 19) dal titolo: “Inquinamento atmosferico e fatalità dei casi di SARS nella Repubblica popolare cinese: uno studio ecologico”, ha appurato quanto l’inquinamento atmosferico sia associato ad un aumento della mortalità dei pazienti con SARS nella popolazione cinese. I malati di SARS, che abitavano le regioni più inquinate, presentavano una probabilità di morte dell’84% più elevata degli altri.

Si ipotizza che il particolato più fine, divenga corriere del virus trasportandolo fin dentro gli alveoli polmonari ed aggravandone la virulenza. In altri studi si dimostra come gli inquinanti atmosferici aumentino l’incidenza delle malattie simil-influenzali, sia mediante l’indebolimento del sistema immunitario, sia mediante l’alterata produzione di citochine. “Ѐ indispensabile decidersi ad adottare da subito misure drastiche per ridurre il livello di inquinanti atmosferici e non solo, è indispensabile un altro tipo di economia. Questa pandemia è una prova generale di come il neoliberismo, con l’inquinamento, col cambiamento climatico, con l’esacerbazione delle disuguaglianze, ci stia portando dritti verso la sesta estinzione di massa. Non si può confidare solo nel meteo o nelle pandemie per ripulire l’aria”.[4]

Ricordiamo che gli animali selvatici possono essere portatori sani di virus. Ѐ dunque il cambiamento climatico a costringere molte specie a venire in contatto con l’uomo o con altre specie, che potrebbero esser vulnerabili alle infezioni. La nostra continua espansione abita spazi prima riservati agli animali selvatici, ne invade l’ambiente, ci espone ad infezioni e virus. Intanto i boschi si trasformano in campi coltivati, gli allevamenti di animali divengono intensivi, si producono mangimi, si pratica la caccia. “Al contrario, mantenendo gli ecosistemi intatti, riducendo al massimo gli allevamenti intensivi, un vero flagello per il pianeta, si riducono le probabilità di contatto e trasmissione di agenti patogeni tra essere umano, bestiame e fauna selvatica”.[5]

Se dunque, come pare accertato, questa pandemia non è un disastro naturale ma, come ad esempio il fenomeno del riscaldamento globale, è antropogenica, allora dobbiamo porre al centro delle nostre riflessioni il comportamento dell’uomo, la sua smania di dominare e di adattare alle proprie esigenze di profitto un mondo, un’umanità, un ecosistema, che egli è tenuto a custodire e conservare, rispettandolo ed amandolo. Aumentano i patogeni in diretta correlazione con l’invasione e la distruzione degli ecosistemi forestali, mentre i virus si trasferiscono dagli animali alle persone.

“L’avidità umana, che non rispetta i diritti di altre specie, né i diritti di membri della nostra stessa specie, è la radice di questa pandemia e delle pandemie che la seguiranno. Un’economia globale basata sull’illusione della crescita illimitata si traduce in una fame insaziabile di risorse planetarie, con conseguente illimitata trasgressione dei limiti del pianeta, degli ecosistemi e della specie”[6]

Ricordiamo con Teilhard quanto sia prezioso il nostro contributo a “costruire la Terra”, edifichiamo sulle orme della ecoteologia di derivazione cristiana e di tradizione francescana, un’architettura fatta di rispetto ed umiltà di fronte all’armonia del cosmo, che ci circonda: superiamo ogni visione deterministica, orientata al dominio e alla sopraffazione di un sistema naturale che in realtà non si può manipolare e controllare, mentre tutti i suoi abitanti sono ridotti a pura fonte di lucro.

Occorre allora, un nuovo modello economico, che abbandoni la fallimentare logica dell’utile e dello sfruttamento, teso a considerare i “paletti” ecologici come meri ostacoli alla realizzazione di un progetto di dominio, e che protegga la Terra, le specie viventi, i diritti dei popoli indigeni, favorendo l’economia delle prossimità, tornando a coltivare ed incoraggiare quella “località”, che rispetta le diverse specie e le diverse culture, nella certezza che la diversità è ricchezza da condividere. “Dobbiamo imparare, una volta per tutte, che siamo membri della famiglia planetaria e che la vera economia è quella della cura: la cura del pianeta e la cura reciproca”[7]

 

Il Buen Vivir

Riscopriamo i modelli di vita che una tradizione millenaria ci ha offerto e che ci consentono un’esistenza più autentica e soddisfacente, capace di saper alienare l’imperante modello  dello sviluppo univoco ed etero diretto, tipico della società attuale.

A questo proposito Margot Bremer ci propone un’affascinante ripensamento, portando alla nostra attenzione le utopie del Buen Vivir, che la teologia india delle comunità autoctone ha praticato con variazioni da un gruppo all’altro secondo specifiche modalità e differenti caratteristiche, “ma tutte includenti, armoniose ed eque, sovrane e sobrie, dialogiche e dinamiche. È il cammino verso un futuro proprio, non copiato né imposto, che dà vita ed identità ad ogni cultura, collegato attraverso le reti ai sogni e ai progetti degli altri”[8]

Tale espressione, Buen Vivir, nasce tra i popoli andini, ma certo esprime un desiderio condiviso e generalizzabile, un sogno di tutti gli uomini. Esprime “una cosmovisione, che emerge con forza dai popoli del sud, gli stessi che sono stati emarginati dalla storia. Non rappresenta una proposta accademico-politica, ma la possibilità di apprendere dalle realtà, dalle esperienze, dalle pratiche e dai valori presenti in molti luoghi, ancorché all’interno della civiltà capitalista. Propone una ricerca di vita in armonia dell’essere umano con se stesso, con i suoi simili e con la natura, nella consapevolezza che tutti siamo natura e che tutti siamo interdipendenti gli uni dagli altri, che esistiamo a partire dall’altro. Perseguire questa armonia, non implica disconoscere i conflitti sociali e le differenze sociali ed economiche e neppure negare che ci troviamo in un ordine, quello capitalista, che è prima di tutto predatorio”[9]

Il Buen Vivir ci insegna le modalità dell’incontro tra bonum personale e bonum commune, consente anzi, alla sfera individuale di manifestarsi, realizzarsi ed accrescersi nella sfera della collettività, mediante una relazionalità condivisa, che non dimentica l’etica ed il senso di appartenenza, che rivive nella riscoperta delle proprie radici e nel rispetto degli altri, fornendoci un nuovo modello di civiltà, la quale sappia stabilire un continuum fecondo con la natura e con gli altri gruppi sociali, dimenticando comunque la monocultura e proiettandosi nell’ottica globale ed accogliente dell’altro e del diverso.

Come afferma Joseph Estermann, utilizzando il termine ‘utopia retrospettiva’, il Buen Vivir si presenta come un “ideale che bisogna recuperare da un passato inconcluso, ma con l’aspirazione ad offrire alternative realmente sostenibili e praticabili”.[10]

Le risposte ad una situazione come quella emergenziale della pandemia che imprigiona il mondo, possono essere molteplici, ma non debbono prescindere da una constatazione di carattere generale che induce a ripensare i nostri modelli economici e sociali.

Nella convinzione che questo virus, come ampiamente sostenuto sopra, finisca in qualche modo per palesarsi come la punta dell’iceberg, come l’indicatore significativo di una crisi sistemica, che ci chiede evidentemente di trovare alternative, vie percorribili per uscire da sistemi alienati, per ricostruire la nostra identità, per sfuggire alla tentazione del decostruzionismo, che da più parti mette in luce la fragilità e l’annullamento dell’io, quell’io che non si riconosce più in una monocultura centralizzata, che non si proietta verso l’altro, che non accetta la diversità, che ha perso il senso comunitario.

 

 

 

La crisi dell’io

Quella convergenza, che Teilhard osserva nell’evoluzione cosmica cristocentrica, sa rafforzarsi e trovare equilibrio proprio nel raffronto con la diversità ed in tale raffronto rinvenire il proprio senso di essere sociale e relazionale. A questo proposito è interessante ricordare le teorie di Viktor Frankl, vissuto per circa tre anni nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale.

Le sue esperienze ed attente osservazioni lo indussero a creare un metodo terapeutico noto come logoterapia,  metodo costruito intorno al significato dell’esistenza. Questa ricerca e la conseguente scoperta di Frankl ci suggeriscono una riflessione, che può rivelarsi feconda per sfuggire alle tentazioni decostruzionistiche dell’io e che diviene più intensa di fronte all’evento pandemico, quando le nostre certezze, i nostri obiettivi, i nostri programmi e progetti a breve o a lungo termine subiscono un duro colpo. L’esperienza di Frankl fu molto dura, ma offrì a lui un’occasione di riflessione, così come oggi la speciale contingenza, che stiamo vivendo, ci pone interrogativi e dubbi. Chissà che la strada suggerita dal deportato nei lager non possa rispondere anche alle nostre domande? 

Frankl nel suo celebre scritto L’uomo in cerca di senso, un classico della psicologia del XX secolo,  sostiene che la costituzione dell’essere umano non ruota intorno alla volontà di piacere, né a quella di potere ma, piuttosto, alla volontà di senso. È dunque la volontà di senso a nutrire la nostra vita, a dare significato ai nostri giorni. Tale tesi sembra oggi specialmente avvalorata dalla condizione dell’uomo moderno, il quale esaspera la proprio soggettività, ma, paradossalmente, ne perde nel contempo l’essenza, la pregnanza.

Avulso dall’alveo protettivo della comunità, isolato in una realtà in continuo mutamento, avviluppato in una tela composta da fili etero diretti, egli si perde, si riversa in mille ambiti, percorre rivoli senza meta, indossa maschere spesso contraddittorie, che non riescono a spiegare la ragione della sua esistenza, si sente un burattino, i cui fili sono tirati da altri:  palesa così, quel contrasto tra vita etica e vita estetica, descritto sapientemente da Kierkegaard, assume l’io debole del Nipote di Rameau, genialmente tratteggiato da Diderot quale icona dell’individuo moderno, incarna la dissociazione tra coscienza onesta e coscienza disgregata, delineata da Hegel nella III sezione della Fenomenologia dello Spirito.

Gli uomini rincorrono una felicità, che è misurata statisticamente tramite l’indicatore del reddito e dunque in termini prettamente economici, elabora progetti che ignorano il qui e ora, per costruire ipotesi futuribili, trasforma una godibile condizione di happiness in un happism, cioè in una condizione possibile, probabile, futura, incerta, insegue sogni confusi indossando abiti consumistici.

Avanza un uomo fragile, che ha perso la propria identità, le proprie radici e che si espone al differimento di senso, che si volge verso le tesi decostruzioniste dell’io, sino al nichilismo nietzschiano. Eppure sarà proprio Nietzsche a scrivere: “Per chi possiede un perché, nulla è intollerabile” (ne Il crepuscolo degli dei), ricordandoci che il significato è elemento costitutivo dell’essere e che trovare un senso alle cose e alla vita, significa arricchirla di spessore umano, comporta il saper affrontare le difficoltà, illuminati da una tensione, da uno scopo verso cui si orienta la nostra esistenza.

Ritroviamo allora un tale scopo (meaning), diamo un significato alla nostra esperienza di vita, ricerchiamo quei valori, che la ispirano e la guidano. Questi valori, asserisce Frankl, costituiscono la qualità morale o estetica dell’esperienza e si declinano in tre aspetti essenziali, in particolare nel mondo occidentale:   il vissuto della bellezza, della verità e del bene.

La bellezza si rinviene immediatamente nell’osservazione della natura, ad esempio di un tramonto, propone Frankl., che illumina e riempie la nostra esperienza estetica. La verità ed il bene si coniugano con l’amore e con l’attenzione, si compiacciono nella scoperta dell’altro, delle sue qualità uniche, della sua irripetibilità, che costituisce anche una preziosa ricchezza, cui attingere. Avvicinarsi all’altro, ascoltarlo, confortarlo, scoprire le sue potenzialità, significa scoprire il senso della propria esistenza.

Il suggerimento dello studioso sembra fornire oggi una speciale opportunità, per rinvenire l’approccio ermeneutico delle cose, del mondo, della nostra esistenza, in un momento certo drammatico e difficile - come quello che stiamo vivendo - ma pur capace, nella sua tragicità, di suggerire la riflessione e il pensiero, di interrogarci sullo scopo del nostro vivere, di delineare nuove vie, di proporre alternative sensate e feconde, sulle quali costruire un futuro diverso, che non sia più esposto, come ora, al differimento di senso, né per il singolo, né per la comunità sociale e politica.

 

[1] Reggiosera.it

[2] Felice Roberto Pizzuti, ‘Se serve una pandemia per imparare la lezione’ in Adista, Anno LIV, Suppl, al n, 6496 dell’11 aprile 2020, n. 14

[3] Gian Luca Garetti, ‘Non andrà tutto bene’ in Adista, op. cit. p.12

[4] Ibidem

[5] Ivi, p. 13

[6] Vandana Shiva, ‘Un virus, l’umanità e la terra’ in Adista, Suppl. al n. 6500, anno LIV, 9 maggio 2020 p. 3

[7] Ibidem

[8] Margot Bremer, ‘Il buen Vivir’ l’utopia della teologia india’ in Adista 22 Suppl. al n. 6504 dell’8 giugno 2020 p. 5 

[9] Ibidem, cfr. Alberto Acosta

[10] Ivi pp. 6-7

Questo articolo è stato pubblicato su Teilhard aujourd'hui n. 34 (ottobre 2020)

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