Il pensiero di Teilhard de Chardin all'incontro tra natura e spirito

Michel Renaud

Il pensiero di Teilhard de Chardin all’incontro tra natura e spirito*

 

 

Michel Renaud è nato in Belgio; insegna filosofia presso la Nuova Università di Lisbona. E’ membro dell’Accademia portoghese delle Scienze e del Consiglio Nazionale per le scienze della vita; si occupa in particolare di problematiche legate alla bioetica. Ricopre la carica di consigliere dell’Associazione Portoghese Amici di Teilhard de Chardin.

 

 

Nel mondo intellettuale si trovano personalità brillanti, che ci aprono orizzonti nuovi e arricchiscono la nostra comprensione del mondo, Tra di loro, tuttavia, ve ne sono alcune di cui è meglio non conoscere la vita privata affinché questa non proietti un’ombra negativa sulla luce delle loro opere. Al contrario, si sono personalità la cui azione o il cui pensiero ricevono dalla conoscenza della loro vita uno splendore che aiuta a trasfigurare la loro opera, come se questa non fosse semplicemente una creazione dell’intelligenza – teorica o pratica – ma il riflesso di una esperienza spirituale globale. La figura di Teilhard appartiene a questo gruppo di intellettuali il cui pensiero sta nel solco di una vita assolutamente fuori dal comune. Scienziato, filosofo, teologo, mistico, anche poeta, Teilhard si eleva, nel suo genio multiforme, come un visionario, che ripensa, inaugura, scopre il nostro sapere sul mondo, in un modo insieme materiale e spirituale. E’ precisamente questo nesso tra la materia e lo spirito che vorremmo evidenziare, ponendolo al centro della nostra presentazione.

1. Perché questo interesse per Teilhard de Chardin? E’ ancora un pensatore attuale? Lo si legge ancora? I non-cristiani lo considerano talvolta come un buon scienziato, un valido paleontologo: ma come pensatore, ritengono che la sua fede sia troppo presente nella sua visione del mondo perché questa sia credibile; quanto ai cristiani suoi contemporanei, non poterono conoscerlo facilmente fino alla sua morte, poiché durante la sua vita le autorità ecclesiastiche si opposero alla pubblicazione delle sue opere. Quanto ai filosofi di professione, sembra che si trovino ancora a disagio in questo pensiero che in un certo modo sfida tutte le categorie, senza presentarsi come una nuova filosofia né inserendosi in una corrente di pensiero contemporanea. Spesso Teilhard appare ai teologi un filosofo, ai filosofi un mistico, e ai mistici uno scienziato. Molti lo ammirano, pochi lo ritengono un pensatore professionista. Ed è vero, Teilhard non è un pensatore professionista, non si iscrive in una corrente filosofica classica, ben collocata nella storia del pensiero. Egli studia la natura, la materia, la biosfera, mostrando in seguito come essa si apra alla noosfera, e questa culmini nel Punto Omega. La convergenza verso Dio della natura e dello spirito è quello che, in tutto l’universo naturale e personale, segna la visione teilhardiana del reale. Ora, non è esagerato dire oggi – ed è la mia profonda convinzione – che una filosofia globale deve articolarsi attorno a tre assi paradigmatici che siano rispettivamente la natura, l’essere umano e l’Assoluto o Dio. Possiamo intanto verificare paradossalmente  che nell’epoca attuale sono rari i sistemi speculativi – se non vogliamo parlare di sistema – le imprese intellettuali che assumono questi tre assi come pilastri della propria comprensione del reale. Quando, superati tutti gli indugi, tentiamo di entrare nel cuore della sua visione intellettuale, vediamo come Teilhard sembri sedurci con la brillantezza delle sue analisi e, allo stesso tempo, ci lascia una certa perplessità quanto alla decisione di seguirlo o di aderire alle sue idee. E’ questo movimento interiore di andare e venire che vorrei chiarire nella prima parte di questa breve analisi.

            Il pensiero di Teilhard ci attrae anche in confronto con le lacune di molte filosofie. Per esempio, la fenomenologia dell’inizio del Novecento, con Husserl e i primi fenomenologi francesi, studia le relazioni tra la coscienza intenzionale e il modo in cui il mondo le appare; il fenomeno, nella fenomenologia è esattamente la posizione di questo apparire del reale a una coscienza umana. Certamente non si tratta, in questa relazione del fenomeno con una coscienza, di riprodurre una sorta di dualismo cartesiano (in questo caso tra la coscienza e il mondo che le appare); siamo al contrario alla ricerca della fonte del senso da cui sgorgano sia la coscienza sia il mondo. Questa definizione riduttiva ci serve però per verificare come la fenomenologia non incontri sul suo cammino il problema di Dio (salvo come fenomenologia della coscienza religiosa in generale, nella quale Dio appare semplicemente con un aura del sacro generale e indefinito).

            Più lontano da noi, nel glorioso periodo della scolastica, le relazioni fra la natura, l’uomo e Dio non erano all’ordine del giorno, la natura era ancora considerata in modo generale e qualitativo, come materia ancora sprovvista di tutta la sua dimensione misurabile ed evolutiva; mancava pertanto, nella trilogia natura-uomo-Assoluto, lo sviluppo della comprensione scientifica del polo “natura”. D’altra parte, esistono oggi descrizioni del cosmo, generalmente derivate dal mondo scientifico, nelle quali sorge immediatamente la domanda sulle relazioni tra la natura e Dio, come se Dio fosse presente quasi oggettivamente e in modo palpabile, per esempio, nella costituzione genetica dell’essere umano; abbiamo qui un corto circuito tra Dio e la natura biologica dell’uomo, senza la dovuta attenzione al polo della coscienza di sé specificamente umana. Dove potremo trovare tentativi di sistema nei quali è rispettata la specificità dei tre assi sopra ricordati: natura o materia, coscienza di sé umana e Dio? E’ qui che si profila la figura di Teilhard de Chardin. Essa rappresenta di fatto un pensiero unificato, che articola rispettivamente ciascuno di questi tre assi o nodi del pensiero, la materia, l’uomo e Dio. E’ per questo che, dal punto di vista filosofico, vale la pena di fermarsi per ascoltare attentamente quel che ha da dire.

 

            2. Non sarà inutile iniziare con alcuni dati biografici. Teilhard nasce il 1° maggio 1881 in un piccolo castello dell’Alvernia in Francia. Compiuti 18 anni, entra nella Compagnia di Gesù; durante la sua formazione tiene lezioni al Cairo, dal 1905 al 1908, prima di iniziare gli studi di teologia ad Hastings in Inghilterra. E’ ordinato sacerdote nel 1911; dal 1914 al 1918 presta servizio come portaferiti nella guerra di trincea; il suo coraggio gli vale diverse decorazioni. Egli parla di quest’epoca in termini significativi: si è trattato di “momenti quanto mai umani”, “come se fossero stati vissuti nell’Assoluto”. Dopo la Licenza in Biologia e, in seguito, il Dottorato (1922), viene nominato Professore aggiunto di geologia all’Institute Catholique di Parigi. Nell’aprile 1923 compie il suo primo viaggio in Cina, della durata di  18 mesi, partecipando, nel Deserto del Gobi, alla scoperta del paleolitico cinese; è in questo momento che scrive la Messa sul mondo. Al suo ritorno a Parigi, riprende alle sue attività di docenza, ma si apre una crisi con Roma; a causa delle sue idee sul peccato originale, il Vaticano, ancora prigioniero del monogenismo – secondo una interpretazione del Genesi ormai decaduta – esige che Teilhard abbandoni il suo insegnamento a Parigi, limiti le sua pubblicazioni ad argomenti esclusivamente scientifici e lasci la Francia. Comincia per così dire il suo esilio di vent’anni in Cina, che diventerà per lui, come disse, la sua seconda patria. Torna qualche volta in Francia, per soggiorni brevi o prolungati. A Pechino, nel 1929 al servizio del governo cinese, partecipa alla scoperta del sinantropo (crani di età fra  400.000 e 500.000 anni). Il suo lavoro di paleontologo lo porta a compiere investigazioni in Somalia e in Etiopia, come pure in Mongolia. E qui (1931) che partecipa alla spedizione americana nel Deserto del Gobi, uno dei luoghi più inospitali della Terra, e scrive Lo Spirito della Terra. Questa spedizione, organizzata dalla Citroën, dura nove mesi. Durante la Seconda guerra mondiale rimane a Pechino. Di ritorno in Francia, nel 1946, riceve la Legion d’Onore e la proposta di un insegnamento alla Collège de France, il più alto incarico di docente in Francia, ma la sua accettazione dell’incarico è condizionata alla ratifica dei suoi superiori religiosi. Nel 1948, decide di recarsi a Roma per spiegare le proprie idee e tentare di ottenere l’autorizzazione a pubblicare il libro Il Fenomeno umano, autorizzazione che gli viene rifiutata, come non gli viene permesso di accettare l’incarico al Collège de France. La sua ultima terra d’elezione saranno gli Stati Uniti, all’età di settant’anni (1951), invitato dal Centro di antropologia e paleontologia di New York. Qui muore il giorno di Pasqua, il 10 aprile 1955, all’età di settantaquattro anni. E’ a New York che scrive la sua ultima opera, Il Cristico, nella quale leggiamo “il Cristo della rivelazione non è altra cosa dal Punto Omega dell’Evoluzione”; allo stesso modo troviamo questa frase, impressionante per un uomo al quale fu proibito di divulgare il proprio pensiero: “Basta, per la Verità, apparire una sola volta, in una sola mente, perché nulla possa mai più impedirle d’invadere tutto e d’incendiare tutto”. Infine, è grazie ad un’amica, Jeanne Mortier, che fu sua collaboratrice negli ultimi quindici anni e fu costituita erede dei suoi manoscritti, che abbiamo la fortuna di veder pubblicare tutta la sua opera di riflessione filosofica, teologica e mistica.

 Quello che impressiona in Teilhard de Chardin è, insieme, il suo spirito di obbedienza alla Chiesa, che pure lo trattò con durezza, e la solidità della sua convinzione circa l’evoluzione dell’universo e dell’uomo. In questa breve comunicazione potremo presentare solo alcuni spunti destinati a mostrare l’attualità del pensiero e in parte l’originalità di questo grande uomo, grande in tutti i sensi del termine. Dei suoi diversi aspetti, potremo solo affrontarne alcuni: nonostante sia scienziato, filosofo, poeta e mistico, Teilhard merita di essere studiato a tutto campo. Per fare questo, sarà necessario tirarlo fuori dal purgatorio della storia, dalle “oubliettes de l’histoire”. Con questa espressione intendo alludere ad un fenomeno molto singolare: molte personalità del mondo intellettuale – non tutte – conosciute ed ammirate durante la loro vita, dopo la morte cadono in una sorta di dimenticanza,  finché dopo pochi anni vengono riscoperti e di nuovo riconosciuti per quello che erano e continuano ad essere. Il filosofo Hegel[1] non sfuggì a questo verdetto, se si pensa che solo settantasei anni dopo la sua morte furono pubblicati i suoi scritti giovanili. Allo stesso modo, che dire oggi di Sartre? E potremmo ancora dire, con Luis Sebastião, che dopo un entusiasmo di quindici anni dall’epoca della pubblicazione postuma della sua opera, Teilhard fu piuttosto assente dalle accademie universitarie per circa vent’anni. Ma i venti della cultura hanno recentemente soffiato in senso contrario: c’è oggi un aumento di attenzione per l’intuizione profonda e per il dinamismo del pensiero teilhardiano. E il Portogallo occupa un posto importante nell’entusiasmo nei confronti della sua opera, come mostra la creazione relativamente recente, grazia al Dr. António Paixão, dell’Associação dos Amigos de Pierre Teilhard de Chardin (AAPTCP)

 

3.1. Il primo spunto riguarda il Teilhard filosofo. La sua visione del Fenomeno umano – opera talvolta mal conosciuta e che costituisce il primo volume delle sue opere complete – presenta l’evoluzione del cosmo, dalla materia inanimata, alla pre-vita, alla vita e alla coscienza. Tutti conosciamo la legge di complessità-coscienza; essa è il nucleo dell’evoluzione che ha portato all’apparizione della coscienza: è la complessità crescente delle strutture biologiche che permette l’aprirsi della coscienza e, con essa, il cambiamento di direzione dell’evoluzione. L’apparizione della coscienza esigeva, di fatto, condizioni precedenti di sviluppo della materia viva, senza le quali non sarebbe stato possibile questo cambiamento. Ciò che interessa al filosofo odierno in questa presentazione sta nel tipo di sequenza che, partendo dalla pre-vita, porta alla vita e in un determinato momento dà origine alla coscienza. Certamente la coscienza opera una rivoluzione nell’evoluzione, ma essa appare solo quando sono possibili determinate condizioni di sviluppo neuronale.

La tesi di Teilhard è caratterizzata da un particolare maniera di affrontare il problema della coscienza: questa maniera differisce dalla filosofia attuale. In generale, la filosofia di orientamento fenomenologico, alla quale ci riferiamo, si inserisce nella specificità della coscienza per analizzare la sua intenzionalità, la sua relazione con una specificità del suo oggetto; per intenzionalità dobbiamo intendere, da un lato, il modo in cui una realtà appare alla coscienza, dall’altro – e reciprocamente – il modo in cui la coscienza costituisce, a partire da sé stessa, l’orizzonte di manifestazione delle realtà che compongono il nostro mondo. Per esempio, lo stesso oggetto, un quadro, può essere considerato come un prodotto in vendita da un punto di vista economico, ciò che lo rende un oggetto contrattabile; può essere considerato un oggetto religioso, se si trova in una Chiesa, come nel caso, ad esempio, di un’icona; e ancora un oggetto estetico per una coscienza artistica o estetica. E’ la nostra coscienza che costituisce l’oggetto nella sua specificità. Ma in Teilhard, la coscienza riflessiva è analizzata in primo luogo come emergente dalla vita fisica. Come si presenta quindi? Le parole di Teilhard non lasciano dubbi: è il pensiero che ci introduce nell’Interno delle cose. Nel Fenomeno umano, egli scrive: “Individuando se stesso nel fondo di se stesso, l’elemento vivente, sino allora disperso e disgregato in un cerchio impreciso di percezioni e di attività, si trova per la prima volta costituito come un centro puntiforme, in cui tutte le rappresentazioni e le esperienze si legano e si saldano in un insieme cosciente della propria organizzazione [...] L’essere riflesso, proprio in virtù del ripiegamento su se stesso, diventa d’un tratto suscettibile di svilupparsi in  una sfera nuova”. Poco oltre, continua: la Vita “ come ogni grandezza che cresce, doveva diventare altra per rimanere se stessa”[2]. Affermazioni come queste abbondano nel libro.

            Quello che intendo qui sottolineare è la vicinanza, non solo nei concetti, ma anche nel vocabolario, con la filosofia di Hegel. Questa vicinanza è, per un verso, singolare, perché questi due pensatori sono tanto lontani l’uno dall’altro, non solo nel tempo, ma anche per i loro interessi professionali e dialettici, che non si potrebbe sospettare di poterli accostare. Ma, per un altro verso, questo confronto non ha affatto nulla di singolare: sembra anzi proprio costituire il centro della mia tesi nell’esposizione di Teilhard: se una grande figura filosofica si profila alle spalle di Teilhard, senza che questi ne abbia coscienza, è proprio Hegel. Che la vita debba diventare altra per rimanere se stessa evoca la dialettica di Hegel, secondo il quale il movimento del reale conduce a ciò che gli si oppone per progredire nella vita della propria auto-realizzazione. Allo stesso modo, caratterizzando l’essere riflesso come “ripiegamento” su se stesso, Teilhard sembra riecheggiare il concetto di In-sich-gehen der Natur, o andare dentro di sé che, nella Fenomenologia dello Spirito caratterizza la coscienza umana. Per i due filosofi, potremmo concludere, la coscienza è questa torsione su di sé che segnala il passaggio dall’esterno all’interno. Inoltre, alcuni autori hanno tradotto l’espressione hegeliana “l’andare dentro di sé” con interiorizzazione, termine che è quasi la parafrasi dell’emergenza della coscienza a partire dalla natura biologica.

            Dobbiamo quindi comprendere la differenza fra questi due approcci: la fenomenologia contemporanea si inserisce dall’inizio nella specificità della coscienza, il passo che Hegel e Teilhard vedono sorgere dal procedimento dialettico della materia viva. Si pone però un problema: come si comprende l’identità tra la coscienza riflessa vista dall’esterno, ovvero come momento particolare dell’evoluzione biologica, e la stessa coscienza vista in se stessa, nella sua soggettività specifica? A dire il vero, questo problema non si pone soltanto per Hegel e per Teilhard, ma in tutta l’epistemologia del Mind-Body Problem contemporaneo. Oggi, difatti, il problema della mente (o spirito) e del corpo (o, più precisamente, cervello) incontra la sua difficoltà più grande quando si tratta di pensare l’identità tra cervello (con le cellule nervose) che produce il pensiero e il pensiero effettivo vissuto soggettivamente da ciascuno di noi. Sarà la stessa cosa dire che, da un lato, il cervello genera la coscienza di sé e che la coscienza di sé ricapitola tutto il divenire dell’evoluzione che ha condotto ad essa? Si impone la risposta negativa; è l’essere umano che pensa con la sua materia neuronale e non è questa ad essere, in sé stessa, pensiero. Teilhard sapeva perfettamente perché l’ingresso nel mondo della Noosfera inaugura un nuovo destino nell’evoluzione della Biosfera. Ma quel che per noi è un problema è il punto di unione tra l’evoluzione biologica e l’emergenza della coscienza interiore, tra la considerazione dell’evoluzione  partire dall’esterno e il suo apprendimento a partire dall’interno. Il tentativo degli odierni specialisti delle scienze neuronali consiste nel porre un’identità – a partire dall’esterno – tra l’interno e l’esterno della coscienza; ma i filosofi considerano questo un errore metodologico; è a partire dall’interno della coscienza che si pone questa identità tra esterno ed interno, tra il funzionamento oggettivo del sistema neuronale e la coscienza di sé, o, con i termini di Teilhard, tra la Biosfera e la Noosfera. Letti a partire da ounto di osservazione, i testi si presentano con un rilievo inedito: varrebbe la pena seguire, con l’accuratezza di un detective, le espressioni con cui Teilhard tenta di pensare questa identità quasi impossibile: il “passo della ominizzazione” è una “discontinuità di continuità”[3].   Riportando queste espressioni, Luís Sebastião cita Teilhard: ci sarà sempre “un intervallo ‘trans-sperimentale’ sul quale non possiamo scientificamente dire nulla; ma al di là del quale ci troviamo trasportati su un piano biologico del tutto nuovo”. Teilhard avrebbe potuto dire, in questa frase, “ci troviamo trasportati su un piano spirituale del tutto nuovo”; ma il fatto di riferirsi al piano biologico nuovo, dimostra il posto privilegiato che Teilhard riconosce alla considerazione dell’evoluzione spirituale a partire dalla biologia.

             La conclusione di questo primo spunto mostra che Teilhard, come Hegel, incontra il problema dell’articolazione del bios con la coscienza (a partire comunque dal bios), ma che rispetta questo “intervallo ‘trans-sperimentale’” in modo più prudente di  molti scienziati di oggi.

 

            3.2. Il collegamento per il secondo spunto sul pensiero di Teilhard sta in una semplice osservazione, che conduce ad un dato importante. Nei suoi scritti, Teilhard utilizza con abbondanza le maiuscole: la Vita, la Terra, il Cosmo, l’Universo, l’Energia radiale, lo Spirito, la Noogenesi e così via. Certamente, in parte questo uso rivela semplicemente un particolarità stilistica dell’autore, come quando scrive allo stesso modo in maiuscolo Barisfera, Litosfera ecc.[4] Ma credo non sia esagerato sospettare anche qualcosa di più sottile: i termini con la maiuscola subiscono in molti casi un processo di globalizzazione, di totalizzazione, che ne fa concetti non soltanto scientifici, ma anche filosofici. Scientificamente, non esiste affatto una percezione globale dell’universo, della Terra o della vita; non sarà che le maiuscole operano così una trasmutazione del singolare verso una totalità, la totalità della Terra, del Cosmo, della Vita o dello Spirito? Questa osservazione apparentemente innocua ci porta sulle tracce di un problema centrale per la comprensione di Teilhard. Molte volte egli colloca il pensiero e lo stesso Spirito già nella materia, come se lo Spirito fosse il dinamismo segreto che, in modo ancora non cosciente, orienta l’evoluzione biologica fino a che l’uomo, in quanto spirito umano, con la libertà di cui gode, sia incaricato di assumersi la responsabilità dell’evoluzione del mondo.

            Due problemi importanti si profilano dietro questa osservazione. Il primo consiste nel chiedersi, secondo una modalità statica, se la presenza dello spirito nella materia è dato radicato nella scienza, o se si tratta di un elemento ricavato da una visione del mondo di natura filosofica. Il secondo consiste nel sapere come si deve intendere il dinamismo dell’evoluzione, se sia una visione dello spirito, una mera idea posta sopra i fatti, o se il mondo è realmente attraversato da una energia che soltanto al culmine della personalizzazione e della comunione fra gli uomini rivela la chiave del suo segreto, ossia la sua natura realmente personale. In fin dei conti, le due maniere di enunciare il problema rimandano alla comprensione della finalità inserita nel reale: questo inserimento è davvero reale o dipende dalla nostra interpretazione di carattere filosofico? Come intendere la finalità del processo evolutivo che, come si sa, vede attraversare tutto il cosmo fino al Punto Omega?

            La questione dell’interpretazione della finalità, o della causa finale, o del senso dell’evoluzione, è il più grande apporto di Teilhard e il punto per il quale fu maggiormente criticato, per esempio, dal biologo francese Jean Rostand. Questi affermò che il pensiero di Teilhard si limita ad essere una semplice visione del mondo soggettiva, quasi gratuita, tanto brillante quanto indimostrabile. Il problema è serio e non possiamo risolverlo con poche considerazioni.

            A partire dal XIX secolo la questione del determinismo e del finalismo dell’evoluzione ha suscitato infinite polemiche. Possiamo oggi dire che il determinismo ha vinto, e che il finalismo sembra nascondere una lettura pseudo-scientifica dell’universo. Parrebbe evidente che la scienza non ha nulla a che vedere con la tesi di una mano segreta che, all’interno dell’evoluzione, ne orienta il divenire.  Ma la questione è più complessa. E’ vero che la scienza si basa sulla causalità efficiente, grazie alla quale tenta di comprendere i fenomeni, e che questa causalità non presuppone uno spirito invisibile che guida il processo evolutivo verso un termine conosciuto da esso in anticipo. In questo senso, la scienza, tanto la biologia quanto la paleontologia, sembra poter prescindere dal concetto di finalità, sostituito da altri concetti come auto-organizzazione, emergenza, o semplicemente il puro caso. Ma il pensiero di Teilhard  va in direzione contraria, perché proprio il movimento antropico che egli riconosce nel cuore dell’evoluzione indica la freccia del progresso verso il quale tende l’universo sia materiale sia umano. In questo senso la tesi di Jacques Monod in Il caso e la necessità è agli antipodi della visione del nostro autore.

            Tutto dipende da cosa intendiamo riguardo ciò che chiamiamo il reale, la realtà, il mondo. Per una mente che si mantiene nel campo della causalità efficiente della scienza, le risposte dell’indagine vertono sulla questione del “come” i fenomeni si trasformano. Ma la questione del perché dell’esistenza dei fenomeni rimane intatta, tanto al principio quanto alla fine dell’avventura scientifica. Ora, il senso dell’evoluzione corrisponde ad un livello di riflessione diverso da quello della causalità empirica. La questione consiste infatti nel determinare il livello di realtà del senso che si riconosce: in che misura questo senso è realmente inerente al divenire dell’evoluzione, oppure dipende soltanto dalla nostra mente che ve lo imprime? Senza dubbio Teilhard ritiene che il movimento antropico non è soltanto una creazione dello spirito, ma che il nostro spirito lo riconosce realmente presente nel reale. Si tratta pertanto di analizzare la relazione tra la realtà del senso dell’evoluzione e il nostro spirito. Da questo punto di vista potremo ottenere diverse risposte, in conformità con i presupposti filosofici che stanno alla base della nostra indagine, risposte che non necessariamente coincideranno con quelle di Teilhard. Ma credo sia possibile mostrare che il pensiero di Teilhard ha senso, perché esistono, nella maniera di comprendere la presenza di una finalità nel mondo, nell’universo e dell’uomo altre prospettive che non siano quelle delle scienze basate sulla ricerca delle cause efficienti. E’ inoltre possibile affermare cha la risposta di Teilhard è legittima. Potremmo quindi proseguire la presente discussione sullo statuto epistemologico di queste risposte che includono una finalità, anche se questo richiederebbe troppo tempo.

            Comunque sia, quanto merita di essere sottolineato è la prossimità, se non nella terminologia, almeno del movimento speculativo che sta alla base della presentazione sia di Hegel sia di Teilhard. In termini filosofici più tecnici, diremo che il fatto per cui Hegel inizi il suo sistema con una teoria metafisica chiamata “Logica” significa che al di qua e al di là di tutto lo studio della natura materiale, esiste un movimento dialettico che si trova nel reale e che non ritorna pienamente reale se non quando è effettivamente pensato, e pensato dallo spirito. Pensare, da questo punto di vista, è un cammino che, attraversando la scienza, comincia prima e termina dopo la scienza. Ma non sarà proprio questo che ci dice Teilhard? La prova sta nel fatto che il Teilhard non sviluppa la sua teoria in opere esplicitamente scientifiche, come quelle che riserva alla paleontologia pura, ma nelle opere di sintesi che furono pubblicate col titolo di Opere di Teilhard de Chardin. Possiamo pertanto considerare che, qualunque sia lo statuto epistemologico riconosciuto al discorso di Teilhard sulla relazione tra la natura e lo spirito, questa relazione non può essere in nessun modo eliminata col pretesto di non essere suscettibile di una prova esclusivamente scientifica[5].

 

            3.3. Un terzo spunto ci permette ancora di apprezzare la specificità della visione di Pierre Teilhard de Chardin: questa volta non la visione dello scienziato puro, ma dello scienziato visionario. Nell’ultimo capitolo del Fenomeno umano, intitolato La Terra finale, Teilhard proietta verso la fine futura del mondo il movimento che ha riconosciuto in azione dall’inizio dell’evoluzione. In questo capitolo si incrociano e si intrecciano tracce che potremmo chiamare fisiche, filosofiche, etiche, teologiche e mistiche. Ma resta una unità attorno al processo di convergenza della materia e dello spirito. Riconosciamo in un certo senso un salto tra la fine cronologica del mondo, che Teilhard raffigura come estinzione della vita sul pianeta, e il fine verso il quale tende, nello spirito, tutta l’unità tra la vita e il pensiero, tra la biosfera e la noosfera. In se stesso, questo capitolo sembra essere anche un ritratto del suo autore, per esempio quando leggiamo: “La Scienza non può giungere agli estremi limiti nel suo slancio e nelle sue acquisizioni senza colorarsi di mistica e caricarsi di Fede.” La fede nella scienza si radica, secondo Teilhard, nell’intimo legame tra la realtà dell’Universo e l’assunzione di questa nel pensiero umano. Per questo il futuro dell’umanità dipende dall’essere umano più che dalle oggettive vicende del pianeta. “La Noogenesi sta crescendo continuamente in noi e attraverso noi. Abbiamo compreso le caratteristiche principali di questa dinamica: avvicinamento dei granuli di Pensiero; sintesi d’individui e sintesi di nazioni e razze; necessità di un Focolaio personale autonomo e supremo per legare, senza deformarle, in un’atmosfera di attiva simpatia, le personalità elementari. Tutto questo, ancora una volta sotto l’effetto combinato di due curvature: la sfericità della Terra e la convergenza cosmica dello Spirito – conformemente alla legge di Complessità e Coscienza”[6]. Questo testo condensato ricapitola tutto il dinamismo e il destino del pensiero umano,  ma non indica ancora quale sarà la sua fine. Qui interviene infatti quello che potremmo chiamare il salto del visionario: la morte del pianeta rimane certa, ma il mondo della Noosfera, nel quale è possibile riconoscere l’interiorizzazione di tutto il sapere e di tutto l’umano, avrà due esiti possibili, “due zone, rispettivamente attratte da due poli antagonisti di adorazione”. O adorazione di se stesso da parte del pensiero umano che si chiude su se stesso – con una specie di egoismo metafisico e morale – o apertura all’alterità dell’amore, grazie alla Noosfera “che si deciderà a ‘fare il passo’ fuori di sé nell’Altro”. Poche righe dopo, Teilhard riconosce, in questa proiezione del futuro radicale del pensiero, “non un progresso indefiniti – ipotesi in contraddizione con la natura convergente della N’oogenesi, bensì un’estasi, fuori dalle dimensioni e dagli scenari dell’Universo visibile”. Il Punto Omega, che nel suo ultimo testo identifica con il Cristo Universale, è in questo modo contemporaneamente immanente e trascendente.

            In queste espressioni, Teilhard supera i confini della scienza, ma dobbiamo ancora sottolineare che, con i concetti di convergenza, interiorizzazione, di concentrazione, di uscita da sé (“... ex-centrarsi sul Centro trascendente della sua crescente concentrazione”)[7], si può di nuovo mettere in luce la prossimità con la teoria dello Spirito assoluto di Hegel. Ma Teilhard non cade in un panteismo elementare: semplicemente, si volge a ricercare, alla sua maniera, il respiro che attraversa tutte le grandi filosofie.

            Non arriveremo a dire che Teilhard deve oggi essere preso e seguito come la verità definitiva sulla scienza, la materia e il pensiero. Essere fedeli all’ispirazione di un pensatore, sia egli Tommaso d’Aquino, Hegel o Teilhard de Chardin, non significa ripeterla ciecamente, col rischio di costruire, per esempio, un neo-teilhardismo tanto caduco quanto il neo-gotico. Ma, con o al di là della sua terminologia, c’è una verità profonda che pervade tutta l’opera di Teilhard, in particolare questa volontà di non disarticolare la materia, il pensiero e il termine trascendente di tutta l’evoluzione.

            Per commentare questa conclusione, mi sia permesso rievocare un ricordo personale, che viene dal contatto con un “maître à penser”, che ho avuto l’onore di conoscere molto da vicino: il professor Jean Ladrière, grande personalità filosofica, mancata nel novembre 2007 e che ho commemorato nella mia comunicazione del 2008 in questa Accademia delle Scienze. Ritornando in auto a Lisbona da un viaggio di scoperta del Portogallo, ebbi l’idea di chiedere a Jean Ladrière quel che personalmente pensava del destino dell’essere umano dopo la morte; gli chiesi cioè come, personalmente e al di là di tutte le teorie filosofiche che già conosciamo, egli si rappresentasse la possibilità di una sopravvivenza umana. Dopo un momento di silenzio, ottenni una risposta che riporto liberamente, ma in modo fedele al suo tono più profondo. Si potrebbe comprendere, disse, l’esistenza umana come un tentativo continuo di unificazione, di realizzazione del proprio sé, come una traiettoria di senso che mira sempre più avanti, ma che non riesce mai a raggiungere qui il suo termine. Quindi, per parlare alla maniera di Teilhard de Chardin, la vita dopo la morte sarebbe, nel Punto Omega, ricevere e vivere profondamente come dono questa unificazione, tanto unificazione interiore di tutte le nostre tendenze profonde, quanto unificazione convergente di tutti con gli altri. Questa risposta mi colpì, ma mi impressionò anche per la sua evocazione della figura di Teilhard de Chardin, come se, tra tutti i giganti della nostra tradizione filosofica occidentale, la figura di questo isolato e geniale scienziato, filosofo e mistico fosse ancora la guida più sicura per orientarci nel problema esistenziale quanto personale della vita dopo la morte.

 

                                                                       Traduzione dal portoghese di Franco Bisio

 

*Comunicazione all’Accademia delle Scienze di Lisbona – 22 gennaio 2009

 Articolo pubblicato su Teilhard aujourd'hui n. 5 (ottobre 2009)

 

 

 

[1] Non intendiamo certo dire che Hegel non abbia influenzato la vita intellettuale dopo la sua morte: ma, lacerata tra “hegeliani di sinistra e di destra”, la comprensione del suo sistema finì per essere tanto distorta da dover aspettare il  secolo XX per veder sorgere un tentativo di comprensione più libera da presupposti ideologici. Ricordiamo che i suoi scritti giovanili, importanti per la comprensione delle sue opere successive, furono pubblicati settantasei anni dopo la sua morte. Non si è verificato per Teilhard dopo la sua morte un fenomeno simile?

[2] Il Fenomeno umano, Queriniana, Brescia 1955, p. 155

[3] Il Fenomeno umano, cit., p. 159

[4] Il Fenomeno umano, cit. p. 170

[5] Si consulti a questo proposito il valido lavoro di Luís Sebastião su Teilhard, soprattutto nella sezione dedicata all’idea di finalità nel processo evolutivo, come pure nella sezione successiva, Il principio cosmologico antropico.

[6] Il Fenomeno umano, cit. pp. 267-268

[7] Il Fenomeno umano, cit. p. 268

categorie articoli: