Dalla gravità al senso del bello

Marco Castellani

Dalla gravità al senso del bello*

 

Membro dell’INAF - Osservatorio astronomico di Roma

Sono tempi nuovi: il nuovo “urge” in noi, nelle nostre vite personali e nella vita sociale. Lo vediamo dovunque, perfino nelle tante irrequietezze politiche di questi mesi. Dove tutto viene rimesso in discussione, anche scenari che per anni e anni sono stati considerati acquisiti. Tutto cambia, tutto si modifica costantemente. Come è dunque diversa questa percezione, tutta “moderna”, da quanto si pensava fino a pochi decenni fa, pervasi ancora da un “modo di ragionare” che ormai sentiamo come lontanissimo! E nella scienza,  tutto questo fermento si avverte, allo stesso modo.

 

”Probabilmente ci stiamo avvicinando al limite di tutto ciò che è possibile conoscere sull’astronomia.” Questa frase si deve a Simon Newcomb, dotto matematico ed astronomo dell’Ottocento, e sintetizza bene una posizione che decisamente, non ci appartiene più. Davvero si era arrivati, alla fine del Diciannovesimo secolo, ad un momento in cui si riteneva di aver compreso la quasi totalità delle dinamiche di funzionamento del mondo fisico. Una comprensione - va detto - rigidamente meccanicistica, specchio esatto e puntuale del modo di concepire il mondo ed i rapporti che si aveva in quell’epoca “dei Lumi”. Da sempre, infatti, il modo di guardare al cielo è appena l’ultima rifrangenza del modo di concepire sé stessi. E il cosmo sembrava allora qualcosa di quasi del tutto compreso e l’universo, ormai lo si era capito, era appena un gioco complesso ma calcolabile di rapporti di forza, di elaborazione accurata ed infinitamente precisa di equilibri e dinamiche, masse e forze, campi e gravità. Tutto era alla portata del computo matematico, che avrebbe finalmente fatto luce in tante residue zone di incertezza. Tutto appariva, in potenza, come infinitamente conoscibile: questione di tempo, appena. Nient’altro. E tutto appariva, se ci pensiamo bene, senza sorprese. Niente poteva stupire più l’uomo occidentale, che con i mezzi della pura ragione si applicava all’opera paziente di portare alla luce ogni cosa non ancora conosciuta, di essiccare ogni residuo di indeterminazione, di residua incertezza. Di procedere di luce in luce estirpando ogni residua superstizione o credenza (a volte così sbrigativamente riunite insieme), e più in generale, ogni senso di altro ed altrove, rispetto al mondo fisico. Sappiamo poi come la natura stessa avrebbe frustrato questa attitudine di pensiero, questo orientamento conoscitivo, portando l’uomo ad incontrare ed incontrarsi con un irriducibile mistero, con qualcosa che in ogni modo resiste ed anzi si oppone, all’idea tutta positivistica per cui la pura razionalità è l’unica porta alla vera conoscenza. Niente affatto! La meccanica quantistica “scoppia” in mano agli scienziati, si può ben dire, come il segnale forte e non più ignorabile, del fatto che c’è una frazione di indeterminazione intrinseca, nell’atto stesso del conoscere, che esiste una compromissione inestinguibile, tra il soggetto conoscente e l’oggetto del conoscere. Tale oggetto - che si pretendeva asettico con chiaro nitore di laboratorio - è invece inestricabilmente mischiato e coinvolto nell’atto stesso delle conoscenza. Non c’è più un altro separato da me, ecco la lezione della modernità (e come non pensare alla Lettera ai Galati, dove dice “Non c’è più né giudeo né greco...”). L’altro si mischia con me nel momento stesso che vi entro in relazione, nell’istante esatto che mi interrogo sulla sua natura. Non posso conoscere senza partecipare in ciò che sto indagando: è fisicamente impossibile. L’universo si modifica nell’atto stesso dell’indagine che facciamo su di lui, l’universo “sente” la nostra presenza e si riconfigura. Non è possibile rinchiuderlo in laboratorio, non è pensabile senza di noi, non è indagabile separandolo da chi lo guarda.

 

Ma questo ancora non lo si sapeva,  non lo si comprendeva: la coscienza umana avrebbe avuto ancora molti passi da fare. La relatività e la meccanica quantistica da un lato, e l’affiorare della psicanalisi, con il concetto di inconscio, avrebbero messo l’uomo davanti all’evidenza di una materia oscura (interna ed esterna) che garantisce l’impossibilità di estinguere il mistero da noi ed intorno a noi, e allo stesso tempo mantiene aperta e viva una componente di libertà per l’uomo, che sfugge ultimamente ad ogni schema deterministico, proprio in virtù di questo inconoscibile. Il positivismo scientifico muore (anche se per molti versi la sua estinzione sarà molto lunga e per certi versi permane tuttora) perché in ultima analisi si rivela come ipotesi semplicistica ed inadatta alla complessità e alla irriducibile varietà del reale. Muore nel mentre noi ci spogliamo delle vesti dell’uomo ottocentesco, ammorbidendo le certezze granitiche e piccolo borghesi in favore di un universo pieno di misteri che ci sovrastano e ci sorpassano da ogni parte, e che rispecchiano assai meglio la coscienza dell’uomo della nostra epoca.

 

Oggi, infatti, dismessa ogni ingenua ipotesi di conoscenza totale del mondo, assai più ci riconosciamo in uno scambio di battute di una nota serie televisiva, The Big Bang Theory, luogo ipermoderno da dove ci arriva questo scambio folgorante:

  • Bernadette: … come va con la materia oscura, Sheldon?
  • Sheldon: Ah, devo dire che questo è il periodo più eccitante della storia del settore
  • Bernadette: Cosa sta succedendo?
  • Sheldon: Ho iniziato ad occuparmene.

 

Dobbiamo renderci conto che tra la frase di Newcomb e quest’angolino di una “normale” serie televisiva, si distende un intero universo, un universo che è prima di tutto psichico, mentale. Un modo totalmente diverso di ragionare, ci riveste, rispetto ad un sapiente di (ormai) due secoli fa. Ma è un cambiamento di prospettiva profondo. Alla sicurezza stagnante - ed anche presupponente - del “già saputo” è subentrato, è rientrato, è esondato in noi, il senso di mistero e di eccitazione per quel che invece, clamorosamente, non si conosce. C’è tutto un mondo, tra queste due posizioni. Lo sappiamo, c’è un mondo, nella scienza e nella vita.

 

Del resto, essere usciti da una concezione di universo “statico”, pieno di stagnanti certezze ma vuoto di mistero, non è senza conseguenze. La nozione di un cosmo in espansione ha meritoriamente relegato alla storia delle idee, proprio quel paradigma di universo stazionario, che per molto tempo ha preso spazio nei testi di astronomia e cosmologia, e che purtroppo per tanta parte ancora occupa la nostra mente, informa il nostro stesso modo di ragionare. Il Big Bang, questa sorta di esuberante inizio del “tutto” (non è propriamente una esplosione, ma possiamo pensarlo un po’ come tale), introduce un irreversibile dinamismo nell’armonia delle sfere, e legittima una visione storica, abilita un senso di sviluppo che è avvitato nel tempo, imperniato nel divenire, nella trasformazione progressiva, nel non essere mai uguale a sé stessi. L’universo in continua accelerata espansione legittima il tempo e gli restituisce piena dignità, respingendo il senso di immutabilità cosmica che per fin troppo tempo ci ha accompagnato. Da un punto di vista più specificamente spirituale, mi sembra di poter dire che il dinamismo esplosivo nato proprio con il Big Bang all’inizio del secolo scorso (non a caso sviluppato tra gli altri da un sacerdote cattolico, Georges Lemaître) riconcilia lo studio dei cieli con la nozione che tutto avvenga  attraverso una storia - perché è ultimamente una buona notizia e dunque una storia e non un insieme di leggi o regole ciò che per il cristiano dona senso alla sua esistenza - tanto che l’intero universo obbedisce a questa regola.

 

Un universo sempre in divenire - per giunta in espansione accelerata - è intrinsecamente un campo di possibilità, un luogo di eventi, infinitamente più di un cosmo statico, congelato nell’essere perpetuamente uguale a sé stesso. Ed infatti, anche a livello conoscitivo, tante nuove prospettive si stanno aprendo, proprio in questi anni, nello studio dei cieli. La prima è senz’altro la gravità. Partiamo da questa, e vediamo come da questa possiamo poi muoverci verso quel senso del bello che è tra le specifiche coordinate di questo mio intervento.

 

Vediamo allora di che si tratta, con cosa abbiamo a che fare. Le onde gravitazionali sono i veri attori che si muovono su questo nuovo palcoscenico, che si è aperto da pochi anni, e che promette di regalarci un occhio nuovo per vedere le cose, per “sentirle” e sentirci parte di un universo sempre meno asettico e sempre più avvolgente. Già previste dalla teoria della relatività generale di Einstein, sono state rivelate empiricamente soltanto un secolo più tardi. Nel 2015 l’esperimento americano LIGO rileva un segnale dovuto (come si capirà presto) alla fusione di due buchi neri, avvenuta in un remoto angolo del cosmo, lontano da noi miliardi di anni luce. Il segnale ricalca esattamente quanto il quadro teorico ci veniva suggerendo per eventi di questo tipo, fin nelle più infime sfumature. La concordanza è impressionante, anche per gli scienziati. C’è dunque tanto in questi nuovi dati, c’è moltissimo: un mondo nuovo si apre, ed intanto che lo fa, ci conferma che quel che pensiamo di sapere è corretto. Come dire, siamo sulla strada giusta: certo, c’è molto da imparare (e su questo torneremo più avanti) ma nel complesso, le coordinate di movimento sono corrette. Di più, ancora: il mondo è conoscibile, e lo è tanto qui dove siamo, quanto negli ambienti più distanti. Non solo la teoria della relatività - uno dei più maestosi e compiuti “affreschi” della scienza moderna, l’ultimo concepito sostanzialmente da un uomo solo - riceve un’altra importante conferma. Ma è la stessa teoria di formazione dei buchi neri, un quadro teorico estremamente complesso e con esilissime verifiche sperimentali, che riceve una sostanziale e ed assai robusta conferma. Il profilo dell’onda che colpisce i rilevatori in quello storico momento, è perfettamente coincidente con la sua estrapolazione teorica. Ci giunge da lontanissimo un messaggio estremamente importante: leggiamo in esso la conferma strabiliante e puntuale delle estrapolazioni scientifiche più coraggiose, riguardanti fenomeni di altissima energia, in zone lontanissime, in condizioni fisiche estremamente diverse da quelle a noi più familiari. Ecco il vero significato di quanto stiamo vivendo: siamo in un punto periferico di una gigantesca galassia, ma da qui possiamo ragionare sull’intero universo. Costituiamo davvero un punto privilegiato (o addirittura, il punto) in cui l’universo prende coscienza di sé, si guarda, si conosce.

 

In ogni caso, dal momento della prima storica rilevazione, la nuova cosmologia della gravitazione è andata già molto avanti: altra caratteristica di questi tempi, dove ogni progresso sembra naturalmente accelerato. Per esempio, abbiamo rintracciato le controparti ottiche di alcune onde, ovvero siamo riusciti a collegare il segnale gravitazionale con un segnale luminoso. Non è cosa da poco, perché ci consente di localizzare nello spazio - con una precisione infinitamente maggiore - la provenienza dell’evento, e dunque “raggiungere” la galassia responsabile, e comprendere, capire ancora meglio, incrociando gli studi, i dati, le evidenze empiriche. Ed è bello ed importante notarlo, ci siamo anche come italiani. I rivelatori Virgo, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, hanno registrato anch’essi alcuni eventi di onde gravitazionali, e sono così entrati a testa alta nel network sempre più promettente, di questo fertile campo di indagine.

 

La gravità dunque, questa forza che (come insegna Einstein) piega lo spaziotempo sagomandolo secondo la distribuzione di masse in esso contenuto, dunque scardinando totalmente e rivoluzionariamente la percezione fallace di un universo “insensibile” a quanto accade al suo interno, è il nostro punto di partenza. La consapevolezza di questa intima relazione, di questa inestinguibile connessione tra contenitore e contenuto, è senz’altro nel segno di questa nuova consapevolezza di cui parlavamo. Le onde gravitazionali in fondo sono appena dei minimi “stiramenti” della tessitura dello spaziotempo, sembrano il sommesso bisbigliare di un universo che reagisce e si modifica a seconda di quello che accade, che partecipa agli eventi e non è più - non sarà mai più! - pensato come un teatro di accadimenti, imperturbabile ed asettico. Non c’è un luogo di eventi, ma tutto è un evento, tutto è qualcosa che accade. Ora, in questo istante. L’onda ci porta una lezione che dobbiamo assimilare, piano piano, e che scardina i nostri arrugginiti paradigmi mentali. Tutto è evento, tutto è storia. Niente è fuori dal flusso del divenire, dalla possibilità inesausta dell’imprevedibile, del sorprendente. La bellezza, allora, rinasce e rifiorisce oggi, proprio dal coltivare questo senso di possibilità.

 

Ma cosa è il senso del bello, oggi, per un astronomo? Come si collega al suo specifico mestiere? Potremmo dire che la bellezza vive proprio nel nuovo modo di guardare all’universo, un modo pieno di incanto. C’è un universo infatti che si lascia guardare così, con rinnovato incanto. Un universo fatto di stelle, pianeti, certo: ma anche di incontri, di volti, di relazioni tra persone, tra persone e cose, tra le diverse parti dell’esistente, inclusa la coscienza umana, che ritorna finalmente protagonista, perno centrale di curiosa consapevolezza, per l’uomo che rivendica a sé, come avventura appassionante, l’indagine sulla natura ed il significato del cielo sopra di lui. Un universo che intreccia indagine scientifica e cultura, scienza e poesia, perché finalmente si riconosce come figlio di ognuna di queste, tutte necessarie per proseguire l’avventura umana.

 

Come avverte un poeta contemporaneo rumeno, Valeriu Butulescu, “La poesia è nata la notte in cui l’uomo ha iniziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile”. Vi è dunque, all’origine dell’atto poetico, un primordiale atto di osservazione, di contemplazione, del cielo. Da qui in avanti la vera scienza non può che nutrirsi di meraviglia: il ricercatore ha bisogno non solo di dati e tabelle, proiezioni e statistiche, ma di attingere alla categoria del fantastico, per mantenere la mente aperta, ricettiva a quei segnali dall’universo, che altrimenti perderebbe. Una mente chiusa, infatti, convinta che non vi sia niente altro da sapere, niente da sorprendersi, ottiene una risposta congruente alla sua ipotesi iniziale, perché in fondo, vede solo chi vuol vedere. Una mente aperta affonda ogni momento in un cosmo ricco di segnali di ogni tipo, si immerge in una rete cosmica di continua imprevedibilità. Già Teilhard de Chardin avvertiva che “nella scala cosmica, solo il fantastico ha la possibilità di essere veritiero”.  Dovremmo riconoscere dunque, che non c’è ormai più spazio. Non c’è spazio per il sentimento, così apparentemente appagante, del senso dell’inconoscibile, o per quello così supponente, del “già saputo”. C’è spazio, rimane ancora spazio, solo per il sentimento dello stupore, con il quale vogliamo, nel seguito, percorrere questa “scala del fantastico” che sola, ormai, giustifica lo sforzo e il costo dell’avventura scientifica.

 

Percorriamo  dunque questa scala verso le stelle, in ossequio alla frase di Teilhard, convinti che solo prendendo estremamente sul serio questo asserto, possiamo riattivare la carica di meraviglia del cosmo, rimetterla in circolo per l’uomo moderno, permettere una fruizione del cielo molto più profonda e felice della trascuratezza “catodica” di tanta parte della vita moderna. Per fare questo scegliamo di muoverci su una sorta di doppio binario. Accanto alle acquisizione dell’astronomia contemporanea, riportiamo delle frasi scritte da alcuni ragazzi delle medie inferiori, che hanno a tema proprio lo stupore dell’uomo davanti alla contemplazione del cosmo. Questi ragazzi hanno lavorato su alcuni miei racconti a tema astronomico (ora raccolti nel volume Anita e le stelle, Arsenio Edizioni, 2019), superando sovente, con felice intuizione, il materiale stesso che avevano a disposizione.

 

Annota dunque Davide, che “a volte  mi  sento  brillare  come  una  stella  che  non  vive  in  cielo,  vive sulla  terra  e  brilla  anche  di  giorno.  È  facile  sentirsi  una  stella,  basta amare  la  vita  e  sentire  dentro  la  vera  stella  che  vuoi  essere.  Dentro tutti  siamo  stelle.” Così viene da pensare che l’astronomia abbia tra i suoi obiettivi ultimi proprio questo, di fare evolvere la stella che è in noi. E il percorso per le stelle, lo sappiamo, è da affrontare con gradualità, con pazienza.

 

Ma anche noi, confortati dalle intuizioni dei più piccoli, possiamo ormai osare di più, arrivando a sostenere che all’origine dell’universo vi sia un atto poetico: sempre Teilhard dice infatti che “È nel nostro dovere - di uomini e donne - comportarci come se i limiti delle nostre capacità non esistano. Noi siamo i co-creatori dell’Universo.” Probabilmente quello che ci è chiesto in quest’epoca di transizione, anzi in questo “cambiamento d’epoca” (come acutamente qualifica il tempo presente anche Papa Francesco), è proprio prendere coscienza di questo nostro stato di co-creatori che ci chiama senz’altro ad una grande ed emozionante responsabilità. Abbiamo una parte attiva nel cosmo e finalmente stiamo imparando cosa questo possa voler dire, e come possa operare come un vero ribaltamento concettuale nella carne dei nostri pensieri, del nostro essere donne e uomini di questo millennio.

 

Con questo spunto di consapevolezza, proviamo a percorrere rapidamente la scala del fantastico, cui accennava Teilhard. Il primo gradino da cui non possiamo prescindere, anche per una giusta contingenza celebrativa, è quello della nostra Luna. Il primo corpo celeste mai esplorato dall’uomo, l’unico spazio esterno alla Terra sul quale l’uomo ha potuto mettere piede. Era infatti il 20 luglio del 1969, esattamente cinquanta anni da adesso, quando accadde l’evento che avrebbe rappresentato un vero punto di svolta, nel rapporto dell’uomo con il cielo. La Luna dista da noi quasi 385.000 chilometri: a pensarci è una vera sorgente di stupore il semplice fatto che questo viaggio sia stato compiuto con la tecnologia degli anni sessanta! Ma l’arrivo sulla Luna è (come una bella mostra presentata al meeting di Rimini, chiamata “Bolle, pionieri e la ragazza di Hong” testimonia) niente altro che una tappa importante dell’epopea di esplorazione e scoperta americana (e universale, in un senso più largo). Anche qui l’umanità delle persone si “contamina” con la scienza, tanto che l’astronauta Buzz Aldrin - il secondo uomo ad aver messo piede dopo Neil Armstrong - potrà in seguito scrivere, “Bellezza mai vista prima. Magnifico, pensai. Magnifica desolazione. Non sarei più tornato sulla luna: che cosa avrei fatto ogni giorno, che missione mi sarebbe stata assegnata?”, fino a chiedersi, con straordinaria lucidità ed onestà umana “Se non era per qualcosa di straordinario, perché alzarsi dal letto?”.

 

Domande che giungono fino a noi, cinquant’anni più tardi, ancora cariche della loro potenzialità esistenziale, punti fermi di interrogazione per ognuno di noi, dopo la fatidica data di allunaggio dell’Apollo 11. Ennesima conferma, se ancora ce ne fosse bisogno, che ogni passo nell’esplorazione dello spazio esterno segna un allargamento del tragitto di esplorazione dei nostri spazi interni, e delle domande a cui ognuno di noi deve dare risposta: prima che teoretica, una risposta operativa, concretissima e quotidiana. Già Carl Gustav Jung, del resto, ci avvertiva che “L’anima contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l’universo con le sue galassie, di fronte al cui sublime aspetto soltanto uno spirito privo di fantasia può non riconoscere la propria insufficienza.”

 

Negli ultimi anni si è registrata una straordinaria espansione della nostra conoscenza nei vari ambiti del Sistema Solare, arrivando ad ambiti per molto tempo accesso esclusivo del fantastico. Il passo successivo di cui ci vogliamo occupare infatti è certamente un grande passo, perché ci portiamo a circa sessanta milioni di chilometri da Terra. Il pianeta Marte infatti è l’ambito per il quale più di frequente parliamo di possibile colonizzazione. È da tempo sotto osservazione da una grande quantità di sonde, che le orbitano intorno e ne solcano la polverosa superficie. Oggi semplicemente collegandoci ad Internet possiamo ammirare dei panorami marziani con un grado di dettaglio superiore anche alle foto delle nostre gite familiari. Mondi lontanissimi sono ora e per la prima volta alla nostra portata, ed anche questo è segno di un cambiamento d’epoca.

 

Così in generale, in questi anni la capacità di vedere il Sistema Solare è cresciuta in modo impressionante, abituandoci alla contemplazione della diversità e della varietà più ampia. Il segno della diversità è, ora più di prima, la prima nostra cifra nel movimento verso l’alto e verso l’altro, la prerogativa imprescindibile del conoscere. Il confronto con tanti ambienti apparentemente inospitali ci conferma in maniera veramente convincente, della preziosità del nostro specifico ecosistema. I siti della NASA e di altri enti spaziali ci offrono uno spettacolo quotidiano di bellezza di cui possiamo nutrire il nostro continuo bisogno di bellezza e di comprensione del reale, in senso finalmente più ampio ed articolato rispetto ai logori e consolidati paradigmi “terrestri”.

 

La specificità straordinaria di avere immagini inedite riferite ai pianeti non esaurisce certo la carica di meraviglia di questi ultimi anni. Un’altra avventura è ripartita in grande stile, ed è quella della conoscenza delle stelle, questi oggetti celesti così peculiari (semplici a descriversi nel funzionamento di base e complicatissimi nei dettagli), e così ubiqui nell’Universo. “Dio mio è pieno di stelle!” esclama David Bowman nel capolavoro di Stanley Kubrick, 2001 Odissea nello Spazio di fronte alla contemplazione della volta celeste. Dante stesso, molti secoli prima della cinematografia, ricorreva in fondo allo stesso “effetto” per narrare il suo ritorno al mondo naturale, dopo il suo viaggio ultraterreno nelle profondità dell’Inferno: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”.

 

L’oggetto “stella” pertanto non riguarda appena gli scienziati, ma tutti  quegli uomini, presenti e completi, che cercano di trovarsi pronti alla sfida conoscitiva del nuovo millennio. Perché il dato di partenza, il banalissimo dato numerico, è che di stelle ce ne sono veramente tante. Le stime, ovviamente, non sono facili, e comportano una serie di assunzioni sullo sviluppo e la geometria dell’Universo, ma potremmo azzardare, con ragionevoli assunzioni, un numero dell’ordine di trentamila miliardi di miliardi. L’imponenza di questa cifra ci istruisce, già da sé stessa,  sull’importanza del “fattore stella”.

 

Ad iniziare, naturalmente, dal nostro Sole. Già infatti per questa stella, nostra fedele compagna da più di quattro miliardi di anni, si annuncia un periodo denso di nuove scoperte. Basta ricordare come l’approccio dell’Europa e degli Stati Uniti alla nostra stella, è stato ripreso in grande stile, proprio in questi mesi, con il lancio di Parker Solar Probe, avvenuto ad agosto di quest’anno, e con quello di Solar Orbiter, il cui lancio dovrebbe avvenire invece nel febbraio del prossimo anno. La sonda statunitense prevede l’istallazione su un’orbita molto eccentrica, con passaggio all’interno della corona solare, ovvero con il transito dentro una delle regione più esterne del Sole! Per affrontare con qualche chance una simile impresa, la sonda è equipaggiata con degli scudi termini capaci di proteggere gli strumenti da temperature dell’ordine dei 2000 gradi Celsius. L’obiettivo di Parker Solar Probe è di condurre una attenta investigazione sulle complesse dinamiche del vento solare, e di arrivare a formulare previsioni attendibili riguardo lo scatenarsi delle temibili tempeste solari, soprattutto di quelle potenzialmente pericolose per le comunicazioni terrestri. Ma l’Europa non è rimasta indietro, in questa sfida conoscitiva importante (e non sarà l’unica volta in cui torniamo a parlare di Europa e di quanto può fare e sta facendo, in termini di esplorazione del cielo). La risposta dell’ente spaziale europeo è come detto Solar Orbiter, che permetterà di compiere osservazioni - in particolare - nella zona dei poli, non visibili dalla Terra.

 

E muovendoci dal Sole alle altre stelle, non è possibile tacere dei progressi compiuti in questi anni di attività del satellite Gaia, di cui peraltro abbiamo avuto già occasione di parlare.[1] Gaia è un progetto dell’ESA, l’agenzia spaziale europea, che già da alcuni anni è nello spazio per realizzare un censimento accurato e senza precedenti della popolazione di stelle della Via Lattea. Vi avverto, qui entriamo nell’attualità della ricerca più vivace, di cui è bene dare almeno un assaggio. Siamo infatti ormai non lontani dal tanto atteso terzo catalogo di stelle di Gaia, che ci fornirà una compilazione accurata e molto precisa di un grandissimo numero di oggetti: avremo un catalogo preciso dell’ordine dei due miliardi di oggetti celesti. Dati di questo tipo e di questa entità avranno bisogno di anni ed anni per essere compiutamente analizzati e probabilmente, non finiremo mai di estrarre tutte le relazioni e derivare tutte le correlazioni, che questo catalogo così ampio rende per la prima volta possibili. L’abbondanza di dati nella ricerca contemporanea è ormai tale, come sappiamo, che nuove tecniche stanno affiorando o si stanno comunque consolidando (quali quelle cosiddette di data mining) per insegnarci a leggere i dati cercando in essi determinate correlazioni. Queste tecniche nuove cercano esattamente un senso nella panoplia del dato empirico, ci addestrano a trovare una intelligibilità al reale. Ci aiutano anche a capire che nessun senso può trovarsi se non a partire da una sorta di ipotesi ordinatrice che aiuti a leggere il reale secondo certe coordinate. Anche in questa relazione, ci teniamo fermi appunto a questo principio d’ordine, scommettendo sul fatto che il cosmo sia fatto per essere osservato, sia fatto - osiamo pur dirlo - proprio per noi. Per quanto spesso non ce ne rendiamo conto, noi siamo l’autocoscienza del cosmo, per citare il titolo di un libro di Luigi Giussani.

 

Gaia è un successo compiutamente europeo, di una Europa che nella efficacie sinergia di una collaudata e ben rodata rete collaborativa, riesce veramente e propriamente, ad arrivare alle stelle. Senza retorica e senza voler planare troppo da vicino sulle recenti vicende politiche di casa nostra, vale appena il caso di dire, di notare, che una impresa come questa non è che possibile, diventa finalmente possibile, soltanto federando i nostri sforzi, quali singoli paesi, aprendo le frontiere ed eliminando, o smorzando, diffidenze ed ostilità, per dare ampio respiro ad un progetto che è sovranazionale nel senso più robusto e virtuoso. L’Europa unita, l’Europa che ritorna a sognare il suo sogno, è capace di risultati che - in casi come questo - nemmeno le grandi potenze come USA e Cina possono vantare. Così che pensare, o ripensare, l’Europa a partire dalle sue acquisizioni scientifiche è certamente un modo per aiutarci a ritornare ad un pensiero di Europa bello, grande, degno di essere custodito e protetto. L’Europa che è così ben rappresentata dalla sua corona di stelle della sua bandiera, adesso risulta in primo piano nella corsa verso le stelle, propriamente intese.

 

Sì, ma alla fine, a che ci servono tutte queste stelle? Possiamo e dobbiamo farci questa domanda, che è un’eco appena di questo approccio all’Universo, che ripropone con coraggio ma con umiltà, il ruolo centrale del soggetto conoscente, il ruolo primario dell’uomo, un uomo appunto non più captivo ma contemplativo, che osserva invece di afferrare, che ha fatto proprie le esortazioni dell’enciclica Laudato Si’ e di tanta parte della sensibilità contemporanea, ed ora cammina leggero e rispettoso in un cosmo incantato, il quale si mostra finalmente in tutta la sua bellezza. E appunto, la sua utilità. Dunque, non abbiamo paura di chiederci, finalmente e di nuovo, a che servono le stelle. E sorprendentemente, a questa domanda, fatta di nuovo con ardimento, arriva una risposta operativa, arriva la risposta.

 

Da un punto di vista umano, infatti, le stelle servono, le stelle sono indispensabili. Senza le stelle nessuno di noi ci sarebbe: non ci saremmo noi, i nostri corpi, ma neanche questo quaderno che adesso tenete in mano. Lui e voi, infatti, siete più simili di quanto potreste pensare: lui e voi, condividete l’origine ultima dei vostri atomi, dei mattoncini di cui siete costituiti. Possiamo dirla in questo modo, lui e voi siete fatti di stelle. Sì, a che servono le stelle? Detto in modo più rigoroso, sono l’unica strada praticabile, per l’Universo, per la produzione degli elementi “pesanti”, ovvero tutti gli elementi diversi da idrogeno ed elio. Il Big Bang, secondo gli scenari più accreditati, avrebbe prodotto (praticamente) soltanto idrogeno ed elio. Ogni possibile “canale” per produrre altri elementi appare sfavorito dalle sezioni d’urto nucleari: è tutto fatto in modo tale che la costruzione degli elementi sia demandato alle stelle, ovvero ad un ambiente più controllato e stabile, dunque tale (direbbero alcuni) da rendere possibile la vita. Dunque, ogni atomo del nostro corpo, ogni particella infinitesima di voi stessi e delle persone che avete accanto, delle cose che usate, è stato costruito - molti anni fa - nell’interno di una stella, e poi messo a disposizione nel cosmo, come semplice “mattoncino di costruzione”. Le stelle sono dunque - in senso diretto e verificabile - parte di noi. E forse non solo “stanno a guardare”, come recita il titolo di un noto romanzo di Archibald Joseph Cronin, ma in qualche modo, ci aspettano.

 

Così infatti scrive Marika, “In  un  punto  sparso  dell’universo  ci  siamo  io  e  le  mie  possibilità:  ogni  mia  molecola  è  unica,  capiente  di  speranza  e  saggezza,  voglio  incamminarmi,  fare  un  passo in  avanti  e  trovare  la  mia  luce.  Vari  stadi  di  conoscenza  evoluta  mi attendono  e  le  stelle  aspettano  il  mio  arrivo.” Frasi di questo tipo aprono davvero la strada ad una nuova percezione del cosmo. Nuova ed antichissima, dove il punto di attrazione, la polarità dominante, non è più il muoversi minaccioso e misterioso di giganteschi blocchi di materia, lo scontro e l’esplosione di distanti stelle, il furibondo consumarsi di galassie in uno scenario violento ed incomprensibile, ma è l’universo “amico” e morbido, che lascia spazio, si lascia finalmente capire, si lascia osservare, si svela dolcemente ad uno sguardo delicato, soave. Così che possiamo riprendere bene la frase di don Luigi Giussani, che avevamo già citato, “L’io è l’autocoscienza del cosmo, cioè tutta la realtà è fatta per l’uomo”.

 

Arriviamo così agli ultimi passi, agli ultimi gradini di questa scala del fantastico che abbiamo affrontato (per sommi capi!) dando fiducia alla frase di Teilhard de Chardin. Arriviamo cioè a confrontarci con il tutto, con la stoffa ultima dell’Universo. L’universo si è fatto raccontabile, fin nella sua più intima essenza. Certo, a dire il vero è sempre stato raccontabile, ma era un racconto mitico, di fantasia, lontano anni luce dai parametri usuali e precisi dell’impresa scientifica. Ora abbiamo, per la prima volta nella storia la abbiamo, una vera e propria mappa. E la mappa è incredibile, in quanto ci comunica, è realmente fonte di stupore. Il quadro teorico largamente dominante - figlio legittimo, tra l’altro, di quella teoria della relatività generale con la cui conferma abbiamo aperto questo stesso intervento - è ancora sorprendente, ai nostri occhi: la parte di universo conosciuto sarebbe appena il 4% del totale, il resto essendo costituito da energia oscura (per la maggior parte) e da materia oscura. Davvero, ora sappiamo di non sapere!

 

E da qui tutto ricomincia, tutto riparte quasi da zero, richiedendo però una consapevolezza nuova. Così che il tragitto che muove dalla gravità al senso del bello, che abbiamo l’obiettivo di percorrere, è un tragitto che muove parallelamente dal senso di autosufficienza, in sé “grave” anche da sostenere e rilanciare, ad un senso di un bello molto più agile e leggero, e che si impernia sorprendentemente sulla nostra “debolezza conoscitiva” finalmente riconosciuta ed amichevolmente accolta. Proprio il momento in cui prendiamo atto di una nostra “abissale” ignoranza - come altro potrebbe chiamarsi il fatto di non sapere di cosa è ultimamente composto ben il 96% di tutto ciò che esiste nell’Universo? - ebbene proprio questo momento, potrebbe essere quello “privilegiato” per un nuova partenza, anche dell’indagine cosmologica. Quel momento in cui la percezione della nostra ignoranza, della nostra debolezza conoscitiva, finalmente spazza via la pretesa prometeica di “dominio” sul mondo creato, e ci rende leggeri e curiosi, con nulla più da difendere, liberi di imparare di nuovo, di chinarci umili verso una percezione del bello, che questa ripartenza fresca ci può dare.

 

Dice Papa Francesco che “Non possiamo mai ritenerci autosufficienti, padroni della nostra vita; non possiamo limitarci a rimanere chiusi, sicuri nelle nostre convinzioni. Davanti al mistero di Dio siamo tutti poveri, sentiamo di dover essere sempre pronti ad uscire da noi stessi, aperti al futuro che Lui vuole costruire per noi”. Questa povertà ci porta ad osservare il cielo, oggi, con occhi nuovi. Per la prima volta, a capire con precisione quanto ancora dobbiamo comprendere. Il dialogo con l’Universo si apre oggi su queste nuove basi, e sfrutta nuovi canali (in primo luogo, le già citate onde gravitazionali, ma non soltanto). Perché al tempo stesso in cui ci apriamo alla nostra ignoranza, diventiamo permeabili alla bellezza e comprendiamo di nuovo che la conoscenza del cosmo ha potentemente a che fare con quella domanda di senso che in quest’epoca, più che mai, ci raggiunge e chiede attenzione. C’è ancora da fare propri, da assimilare nella nostra carne, concetti che la meccanica quantistica ormai da tempo ci suggerisce, sulla connessione tra chi osserva e chi è osservato, nella fatica bella di raggiungere questa unità con il cosmo, anzi, di raggiungerla di nuovo, di riprendere questo incantamento, come perno fondamentale della nuova cosmologia. E ancora una volta, sono i ragazzi a precederci, con l’intuizione folgorante di cui rimangono capaci: come scrive Daniela, “ho visto pianeti conosciuti, narrati con amore ho ascoltato le loro storie, assaporato le loro verità mi sono accorta di essere tutt’uno con l’universo e che l’universo è in me.”

 

Il senso del bello, dunque, è anche in senso squisitamente lessicale, in questo rientro di termini come amore e come ascolto nella trama complessa e polimorfa dell’indagine sul cosmo. La grandiosa complessità a cui è arrivata la scienza cosmologica deve, in altri termini, poter essere declinata anche in una semplicità di secondo grado, ovvero in un modo limpido e soprattutto coinvolgente di trattare oggi del mistero del mondo, perché torni ad essere interessante e pertinente per l’uomo moderno, qualunque sia il suo grado di formazione scientifica.

 

La contemplazione del cielo stellato, da sempre, evoca misteriose corrispondenze con un senso del bello che riconosciamo presente dentro di noi, prima di ogni considerazione fisico o financo metafisica. La cosmologia che ci attende, ha l’opportunità straordinaria di divenire la strada che ognuno di noi, può prendere, verso le stelle. È la sfida conoscitiva più nobile ed allo stesso tempo, più urgente: lavoriamo tutti dunque, perché questa fantastica opportunità non venga persa.

 

 

 

 

Galassia NGC 772

Questa bella immagine del Telescopio Spaziale Hubble ha il pregio di farci capire come potremmo essere visti da molto, molto lontano: è la galassia NGC 772, una galassia spirale per molti versi assai simile alla nostra Via Lattea. Già una veloce occhiata mostra una articolazione di strutture veramente sorprendente: le galassie infatti sono ambienti stellari estremamente complessi e variegati, dove differenti “popolazioni stellari” convivono e si incastonano a formare strutture particolarmente articolate. Lo studio dettagliato di questi miliardi di stelle (ora possibile, per la Via Lattea, grazie al satellite Gaia dell’Ente Spaziale Europeo) promette di restituirci il quadro dettagliato della formazione ed evoluzione di questi gioielli cosmici, disseminati per tutto l'Universo. Crediti immagine: ESA/Hubble & NASA, A. Seth et al.

                                                                                                                                         

 Edwin “Buzz” Aldrin Jr., il pilota del modulo lunare, scende i pochi scalini che lo separano ormai dalla superficie del nostro satellite. La foto è stata presa dal comandante Neil Armstrong, già sul suolo lunare (un terzo astronauta, Michael Collins, è rimasto sulla navicella in orbita in attesa di recuperare i compagni dopo la straordinaria passeggiata). L’Apollo 11 fu la prima missione a portare l'uomo a contatto diretto con il nostro satellite naturale, esattamente cinquant'anni fa. L’impresa fu veramente storica ed ebbe un profondo impatto sulla coscienza degli astronauti stessi, rilanciando potentemente la domanda umana di compimento, drammaticamente esaltata dai nuovi scenari che si aprivano lungo questo formidabile cammino di esplorazione del cosmo. Crediti immagine: NASA

                                                                                                                                                                 

Questa straordinaria e recentissima immagine (è stata acquisita nell’ottobre del 2019) è un selfie del rover Curiosity, al lavoro sul suolo marziano dopo più di 25000 “giorni marziani” dal suo arrivo sul pianeta rosso. Essendo una composizione di vari scatti, si è potuto elidere il particolare del braccio robotico utilizzato del rover per distanziare la camera quel tanto che bastava per effettuare la foto. La qualità dei dati e delle immagini che ci giungono da questo remoto ambiente planetario contribuisce al nostro stupore e alla nostra conoscenza dettagliata del pianeta meno dissimile dalla nostra Terra, utilissima in vista di un approdo umano sul suolo marziano, ipotesi che sta uscendo dalla fantasia per entrare, gradualmente, nel novero delle cose che in tempi ragionevoli diventeranno probabilmente possibili. Crediti immagine: NASA/JPL-Caltech/MSSS

                                                                                                 

Questa immagine cattura una straordinaria eruzione solare, avvenuta nel 2010. Il materiale espulso dalla nostra stelle - quieta e tranquilla solo in apparenza - si è dispiegato nello spazio per un’ampiezza di ben un milione di chilometri. Stiamo imparando proprio dall’indagine accurata della superficie del Sole - possibile a livelli senza precedenti, grazie alle nuovissime sonde europee e statunitensi - come l’esterno delle stelle sia un luogo di spumeggiante vitalità, sede di complessi intrecci in cui il campo magnetico gioca un ruolo fondamentale. L’esuberanza del Sole è un problema rilevante per la vita sulla Terra perché ha un impatto decisivo sulle telecomunicazioni ed anche sulla sicurezza degli astronauti in missioni extraveicolari. L’obiettivo di comprendere e forse perfino anticipare gli episodi più eclatanti quali eruzioni di massa come questa, sta finalmente diventando qualcosa alla portata degli scienziati contemporanei. Crediti immagine: NASA

 


[1] Mario Castellani, “Cosmologia e astrofisica, dall’infinitamente grande la nuova rivoluzione scientifica”, Teilhard aujourd’hui 27 (giugno 2018), pp. 63-78

* Articolo apparso su Teilhard aujourd'hui 31 (ottobre 2019)

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